domenica 29 dicembre 2024
La comunità è stata fondata nel 2019 per ringraziare il presidente Usa del riconoscimento della sovranità israeliana sull'altopiano. Ci vivono 26 famiglie. «Presto saremo centinaia»
Trump si allarga anche sul Golan: gli israeliani residenti raddoppieranno
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Quando, dopo tre ore di viaggio da Gerusalemme, si imbocca l’ultimo tratto della Road 91, sulla terra scura e dura, a sinistra, spuntano ancora i cartelli gialli di pericolo. «Warming», «Attenzione», si legge. Dall’altra parte della strada c’è uno scampolo di filo spinato con il vecchio cancello di ferro arrugginito. Là, fino al 1967, cominciava la Siria. Con la guerra, però, Israele ha “spostato” il confine del Golan più a nord: gran parte delle Alture è stato prima occupato e, poi, i due terzi sono stati annessi nel 1981.

Decisione quest’ultima che ha scatenato l’ira della comunità internazionale, compatta nel rifiutare la sovranità di Tel Aviv su questo territorio. Almeno fino al 25 marzo 2019 quando, via Twitter, l’allora presidente Donal Trump ha annunciato l’inatteso riconoscimento statunitense. Ecco perché, d’un tratto, inoltrandosi nella Valle di Hula, ci si imbatte in un cartello bianco che indica le “Alture di Trump” o “Ramat Trump – Trump Heights”, come si legge in inglese e in ebraico all’entrata della comunità dedicata al leader repubblicano.

Era stato il premier Benjamin Netanyahu – anche al tempo capo del governo – a voler ringraziare così l’alleato. La scelta del Consiglio del Golan era caduta su un’enclave remota, a dodici chilometri dal Libano e altrettanti dalla Siria. Era stato fondata negli anni Novanta ma si era progressivamente svuotata: cinque anni fa rimanevano appena sei abitanti. Il cambio di nome ha portato una fase di lenta espansione: al momento, ci vivono ventisei famiglie – settanta adulti e sessantasei bimbi – in altrettanti prefabbricati bassi con giardino intorno. Ora, però, il boom potrebbe finalmente realizzarsi, complice la rivoluzione in atto a Damasco e, ovviamente, la rielezione di Trump.

«Vede? Là costruiremo cento case e, poi, contiamo di realizzarne altre quattrocento nel giro di due o tre anni», dice Yarden Freeman, responsabile della gestione di “Trump Heights”, mentre indica con la mano un ampio sterrato che si estende dietro l’asilo, la sinagoga e il centro comunitario. Il 15 dicembre, una settimana dopo il repentino crollo del regime di Bashar al-Assad –, la Knesset ha approvato un finanziamento di 11 milioni di dollari per duplicare la popolazione ebrea nel Golan. Venticinquemila persone al momento, distribuite in trentatré comunità e la “capitale” Katzrin, a cui si aggiungono altrettanti arabi drusi residenti in quattro villaggi pre-esistenti.

La scritta, in ebraico e in inglese, segna l'entrata alla comunità Ramat Trump-Trump Heights sul Golan

La scritta, in ebraico e in inglese, segna l'entrata alla comunità Ramat Trump-Trump Heights sul Golan - undefined

Quelli israeliani sono insediamenti illegali in base al diritto internazionale. «Non siamo coloni. La situazione è molto diversa dalla Cisgiordania su cui ci sono opinioni differenti riguardo al suo status. Sul Golan no: in Israele c’è unanimità nel considerare questo altopiano parte integrante del Paese», precisa Yarden che porta al collo, come ciondolo, una moneta con un’iscrizione in ebraico. «È stata trovata qui vicino e risale a duemila anni fa. La presenza degli ebrei su questa terra è storica. Alla Siria è appartenuta per appena una ventina d’anni». Il manager di “Ramat Trump- Trump Heights” precisa, inoltre, che nel Golan non ci sono tensioni con i vicini arabi. «Al contrario, i rapporti sono ottimi. Fino a qualche giorno fa in giardino c’era una bandiera drusa accanto all’albero con appese le foto degli ostaggi rapiti da Hamas. Ora l’abbiamo tolta per pulirla poi la rimetteremo. È un omaggio alle dodici vittime di Majdal Shams, colpite da un razzo di Hezbollah». Secondo il governo israeliano, l’espansione della popolazione è il modo più efficace per far fronte alle minacce esterne nel nordest: il movimento pro-Teheran in Libano e i ribelli jihadisti al potere ora in Siria. La «frontiera civile», la chiamano le autorità di Tel Aviv.

«Non possiamo consentire un altro 7 ottobre – ribadisce Yarden –. Il modo più efficace per evitarlo è costruire nuovi villaggi e portare più gente. Vuole un esempio? “Trump Heights” è rimasta disabitata per due anni dopo la sua creazione. C’erano solo le bandiere israeliana e statunitense che sono state più volte vandalizzate. Da quando sono arrivate le prime famiglie non ci sono più stati incidenti. Per essere sicuri, dunque, abbiamo necessità di popolazione e di una zona cuscinetto». Quest’ultima, in realtà, Israele l’ha già creata quando all’indomani della fuga di Assad, si è affrettata a occupare il terzo delle Alture ancora sotto il controllo siriano. I soldati di Tel Aviv hanno raggiunto la cima innevata del monte Hermon, che svetta azzurra alle spalle di Ramat Trump, con l’intenzione di trascorrervi l’inverno. Il piano di espansione – che prevede infrastrutture e tre nuovi insediamenti – ora, dovrebbe riempire l’altopiano di nuovi cittadini. E magari, dopo il ritorno il sella del leader repubblicano, tanti sceglieranno proprio la “sua” comunità.

«In realtà, abbiamo centinaia di persone in lista d’attesa da ben prima del voto Usa – precisa Yarden –. Qui non ci sono solo trumpiani. Abbiamo persone di ogni orientamento politico e religioso. E tutti stanno insieme in armonia». Moshe, ingegnere di 33 anni, si è trasferito qui dall’Alta Galilea nel maggio 2021 proprio attratto dalla possibilità di risiedere in una comunità mista. «Mia moglie non è religiosa, io sì. Per questo siamo venuti – racconta –. Siamo stati i terzi ad arrivare. E, poi, amiamo la natura. La politica ci interessa poco. Quella statunitense poi…».

Sembra un paradosso ma a Trump Heights, il nome di Trump è tabù. I pochi che accettano di parlare con i giornalisti declinano con un sorriso le domande sul presidente eletto. In ogni caso, aggiungono, non c’è stata alcuna celebrazione per la sua vittoria. «Se ho festeggiato? Ero ancora sotto le armi l’8 novembre, come quasi tutto l’ultimo anno», aggiunge Moshe che, come confermano i capelli cortissimi, ha terminato il servizio di riservista nell’esercito appena una decina di giorni fa. «Ovviamente capiamo che la rielezione di Trump ci fa pubblicità». Gli ha fatto, dunque, piacere? Avrebbe, votato per lui se fosse stato statunitense? «A questo preferisco non rispondere». Meglio non parlare di Trump nella comunità che ne porta il nome.

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