lunedì 28 ottobre 2024
Sergio Della Pergola rilegge la percezione del conflitto. E sulla strategia di Netanyahu: «Contenuta la minaccia a Gaza, un premier avveduto avrebbe messo gli ostaggi al primo posto»
Il sistema antimissile Iron Dome in azione contro i missili lanciati sulle aree centrali di Tel Aviv

Il sistema antimissile Iron Dome in azione contro i missili lanciati sulle aree centrali di Tel Aviv - Reuters

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«Troppo pochi gli ebrei uccisi». E’ deliberatamente cinica, sconcertante, dolentissima la provocazione da cui parte Sergio Della Pergola nella sua “Lettera a un amico libanese” consegnata pochi giorni fa al portale dell’ebraismo italiano Moked. Professore emerito all’Università di Gerusalemme, città che ha scelto 58 anni fa, tra i più accreditati osservatori della realtà israeliana, ha da poco pubblicato Essere ebrei oggi, per il Mulino. Da 12 mesi vive dentro la guerra e osserva chi la commenta da fuori. Soprattutto in Italia.

Dal 7 ottobre 2023, in un anno sono stati lanciati verso Israele circa 13.200 missili da Gaza, 13.400 missili/droni dal Libano, 400 dall’Iran, 180 dallo Yemen, 60 dalla Siria. Fanno 27.240 missili/droni, cifre che nessuno contesta. Calcolando anche solo una vittima per missile/drone, che è un’enorme sottostima, fanno più o meno 30mila ebrei uccisi. Non sarebbero “troppo pochi”, questi.

Decisamente no. E forse cambierebbe la percezione, condivisa e sbagliata, di una guerra sproporzionata. Ma Israele ha questo strano vizio di proteggere la sua gente, con un robusto sistema di difesa antiaerea e con una rete capillare di rifugi, pubblici e privati. Mentre Hamas nei tunnel - seicento chilometri di cemento che potrebbero ospitare centinaia di migliaia di persone - ci mette solo i missili e gli ostaggi. I civili devono restare in superficie, possibilmente vicino alle rampe di lancio, opportunamente sistemate nei compound di scuole e ospedali. E più ne muoiono meglio è: la teoria è stata formulata con inequivocabile chiarezza da Sinwar e Nasrallah. Il risultato è che ci sono tante vittime da una parte e “troppo poche”, appunto, dall’altra. E la valutazione del conflitto prende la piega che ha preso.

Prima della guerra Hamas vantava 20-35mila operativi. Ora dichiara più di 40mila vittime, cui ci si riferisce in gran parte come “civili” e “bambini”. Non ha combattuto nessuno, là dentro?

Ammetto con dolore che stanno morendo tanti civili, tanti innocenti. Ma è doveroso fare alcune considerazioni. Hamas in settembre ha fatto pubblicare dal suo Ministero della salute un lungo elenco - che nessuno può onestamente considerare del tutto attendibile - con i nomi e i dati anagrafici di circa 35mila vittime. Non c’è distinzione tra civili e miliziani, si evidenzia solo che la gran parte delle persone decedute non era in età da combattimento, o che si trattava di bambini. A causa dell’alta natalità, l’età media nella Striscia è di 18 anni. Ora: un ragazzo di 18 anni che lancia missili da una rampa cos’è? Un civile o un miliziano? Un ragazzo di 17 anni che spara con un Rpg in mano che cos’è? Un bambino o un miliziano?

L’accusa principale rivolta a Israele è quella di bombardare indiscriminatamente.

Quando arrivano i missili, qui da noi, suonano le sirene e tutti, uomini, donne, bambini, abbiamo un minuto, un minuto e mezzo, a seconda delle città - al nord e al sud sono solo pochi secondi - per entrare nei rifugi. A Gaza e in Libano gli ordini di evacuazione vengono comunicati dagli israeliani - volantini e chiamate telefoniche -, con una o due ore di anticipo. Chi bombarda indiscriminatamente? Piaccia o non piaccia, questa è una guerra, peraltro non iniziata e non voluta da Israele. E le regole di ingaggio sono quelle di tutte le guerre. Perché una parte ha il diritto di attaccare e l’altra no?

Perché?

Qui tocca fare un discorso di base molto impopolare. Quotidianamente Israele viene denunciata non solo per circostanze specifiche, ma per la sua stessa esistenza. E devo dire, purtroppo, che a questo nutrito coro di accusatori si aggiungono alcuni utili idioti ebrei, forse nell’intimo sinceramente attaccati alla comunità, ma poco consapevoli di quanto siano deleterie le loro considerazioni pubbliche per lo Stato di Israele. In ogni caso, gratta-gratta, si arriva a una radice profonda che non è mai stata risolta: quella dell’antisemitismo. Che è diffuso, e spesso inconscio. Israele fa un sacco di errori e la critica è ben accetta. Di più: è perfettamente condivisa da gran parte della popolazione, che da due anni scende in piazza contro questo governo impresentabile. Ma da qui a valutare pregiudizialmente tutto ciò che Israele fa, ne corre.

Israele avrebbe potuto adottare altre strategie per Gaza e per il Libano? Meno distruttive?

Non credo. Hamas, come Hezbollah, è un cancro: stroncare il potenziale militare e smantellare le infrastrutture era necessario. E ora bisogna arrivare fino in fondo. Per anni a Gaza è entrato di tutto, in barba alla presunta segregazione dell’enclave. Il confine con l’Egitto era apertissimo. I pick-up Toyota con cui è stata commessa la strage del 7 ottobre non provenivano certo da Israele. Sono rimasto stupito anche dalla quantità e dalla qualità dei tunnel e delle trincee costruiti da Hezbollah nel sud del libano, sotto gli occhi dell’Unifil. Una rete che rivela un piano di attacco molto preciso, in corso da anni, e colpevolmente sottovalutato dalla parte israeliana. Adesso, però, è tempo che Israele faccia proposte concrete e coraggiose. Proprio per evitare che l’ideologia, condivisa, in vari gradi, dalla gran parte della popolazione gazawa e sciita-libanese, riproduca i regimi che sono stati così efficacemente indeboliti.

Netanyahu non sembra incline a fare proposte.

Netanyahu ha dato l’impronta a questo Paese negli ultimi 15 anni. In questo tempo ha scelto di non trattare con i palestinesi di Ramallah, manovrando, piuttosto, con i loro acerrimi nemici a Gaza, nell’illusione di poterli tenere tranquilli con dei vantaggi economici. Hamas, devo dire con furbizia e lungimiranza, li ha saputi sfruttare, questi vantaggi. Sottoterra. Quanto fosse sbagliata la strategia di Netanyahu l’abbiamo visto un anno fa. Chiaramente non si può non pensare a una formula che garantisca sovranità ai palestinesi. E Israele dovrà saper fare concessioni, soprattutto sugli insediamenti. Dal mio punto di vista bisogna immaginare un’architettura giuridica che consideri non due ma tre Stati, perché Gaza e Ramallah sono entità totalmente incompatibili, inconciliabili. E per la Cisgiordania penso a una struttura statuale sull’esempio della Bosnia-Erzegovina: da quelle parti le cose non stanno funzionando perfettamente, ma la guerra è finita.

A cose fatte, dopo un anno di guerra, siamo sicuri che un altro premier non si sarebbe comportato allo stesso modo?

Contenuta la minaccia a Gaza con i primi mesi di combattimento, un politico avveduto avrebbe reimpostato le priorità, avrebbe deciso una tregua, per mettere al centro gli ostaggi, che sono un dolore intollerabile per le famiglie e per ogni singolo cittadino di questo Stato. Sì, ho parlato di Auschwitz: quando abbiamo visto tornare in un sacco, con una pallottola nella nuca, i cadaveri recuperati in un tunnel di una donna che pesava 36 chili, e di un uomo alto 1 metro e 80 che ne pesava 50, a cosa credete che abbiamo pensato in questo Paese? L’ideologia è quella. I metodi persino più crudeli. Abbiamo 101 deportati, perché questa è la parola giusta, persone di cui tutti fuori da Israele si sono dimenticati, che vanno messi al primo posto. Ma questo governo non lo fa. Netanyahu non vuole rinunciare al prolungamento della guerra, neanche alla luce dei recenti successi dell’esercito e dell’intelligence, e perfino della storica incursione nei cieli dell’Iran: se le acque si calmassero, si aprirebbe una commissione d’inchiesta sul 7 ottobre che lo farebbe finire a casa, per non dire peggio. Bibi ha scommesso sulla rielezione di Donald Trump. Potrebbe forse ripartire il percorso di normalizzazione regionale avviato con gli Accordi di Abramo e interrotto dall’Iran e dai suoi proxy. Ma poi Trump, che è un fondamentalmente un isolazionista, ci saluterebbe. E saremmo noi a dovercela vedere con i vicini. Guardiamoci intorno, allora. E pensiamo attentamente a cosa fare.

Sergio Della Pergola

Sergio Della Pergola - Archivio


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