Bambini sfollati da Gaza - ANSA
Non è stato sufficiente l’appello in extremis del dipartimento di Stato, arrivato quando i parlamentari discutevano alla prima sessione invernale della Knesset, le cosiddette “leggi-anti-Unrwa”. Né il richiamo dell’Alto commissario Ue, Josep Borrell. Né la lettera di Canada, Australia, Francia, Germania, Giappone, Corea del Sud e Regno Unito in cui chiedevano un passo indietro in nome degli «aiuti umanitari essenziali e salvavita» garantiti dall’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi.
In tarda serata, l’Assemblea ha approvato con 92 voti favorevoli e dieci contrari la prima misura del pacchetto che paralizza, di fatto, le attività dell’istituzione in Israele. Tecnicamente non le viene impedito di lavorare in Cisgiordania, sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) o a Gaza, governata da Hamas o di quel che ne resta. Ma difficilmente l’Unrwa potrebbe raggiungere tali zone senza appoggiarsi nello Stato ebraico. Da qui le preoccupazioni, della comunità internazionale per i 2,5 milioni di palestinesi dei Territori che dipendono dall’Agenzia per i servizi di base. Oltre il 40 per cento degli assistiti da quest’ultima: gli altri sono i palestinesi sfollati in Libano, Giordania e Siria. La decisione era attesa.
I rapporti tra Tel Aviv e Unrwa sono sempre stati complicati. La rottura, però, si è consumata il 7 ottobre. Il governo israeliano ha accusato con veemenza l’istituzione di complicità nel massacro di Hamas poiché nove dei suoi dipendenti – su 13mila – erano affiliati al gruppo armato. Secondo fonti ben informate, la situazione è, poi, sfuggita di mano. Il premier, Benjamin Netanyahu e la destra tradizionale non avrebbero voluto arrivare a un divieto legale per evitare ulteriori frizioni con gli Stati occidentali, Washington in primis. Dopo un anno di critiche virulente, sarebbe stato difficile per il prendere posizione contro il provvedimento, che è andato avanti, cavalcato dalle frange più radicali.
Meno di tre settimane fa, le autorità hanno espropriato la sede dell’istituzione a Gerusalemme Est, su ordine del ministro per l’Edilizia, Yitzchak Goldknopf. Già a giugno, le autorità annunciato la fine imminente dei servizi dell’Agenzia e avevano garantito un piano alternativo. Il quale, però, non è ancora stato presentato. Nel frattempo, lo stop è arrivato comunque. Nella notte era previsto un secondo voto – dall’esito probabilmente analogo – per revocare l’immunità diplomatico e le esenzioni fiscali al personale dell’Unrwa. «Scandaloso che un Paese membro delle Nazioni Unite cerchi di smantellare un'Agenzia Onu fondamentale per l’assistenza a Gaza», ha tuonato la portavoce, Juliette Touma. La questione è quantomai scottante nelle ultime settimane per la catastrofica situazione del nord di Gaza dove è in corso la terza offensiva israeliana. Almeno centomila persone, secondo le autorità locali, sono intrappolate nei campi profughi di Jabalia, Beit Lanoun e Beit Lahiya senza aiuti dato che alle organizzazioni umanitarie non viene consentito l’accesso. Questione su cui anche ieri il dipartimento di Stato Usa ha espresso «preoccupazione». Altre cinquantamila sono fuggite ma hanno rifiutato di attraversare il corridoio di Netzarim – che divide in due l’enclave – e si sono concentrate alla periferia di Gaza City.
Di fronte al dramma della Striscia – denunciato con forza dalle organizzazioni umanitarie - gli Usa stanno cercando di aumentare la pressione su Israele. «La guerra a Gaza deve finire», è stata la prima dichiarazione del presidente Usa Joe Biden subito dopo aver depositato la propria scheda nell’urna in Delware. Invece si continua a combattere nella Striscia e in Libano, dove un bombardamento su Tiro ha ucciso sette persone. E gli analisti, ritengono improbabile un’interruzione delle ostilità prima delle elezioni di martedì prossimo. I familiari dei 101 ostaggi ancora prigionieri nell’enclave non sono, però, disposti ad arrendersi. Con gli occhi rivolti a Doha, dove domenica e ieri sono ripresi i colloqui dopo oltre due mesi di stallo, hanno portato il loro grido dentro la Knesset. «Non c’è niente di più urgente del ritorno dei sequestrati», ha urlato Einav Zangauker, madre di Matan, uno dei 101 sequestrati ancora nell’enclave, chiamata a parlare con un gruppo di parenti di fronte a varie commissioni parlamentari. Lo hanno fatto senza reticenze, abbinando alle parole i fatti. Al termine degli interventi, hanno bloccato uno dei corridoi principali in modo da impedire il passaggio a legislatori e personale. Altri si sono legati con delle fascette alle sedie del bar dell’Assemblea. Fuori, accampate ai piedi della salita di accesso all’edificio, trentatrè persone continuano lo sciopero della fame a oltranza dal 21 settembre.
Le parole del premier, Benjamin Netanyahu, però, non sono state incoraggianti. Nel discorso ai deputati, ha ribadito che Israele sta lavorando a un’intesa per il rilascio di «alcuni» rapiti, in cambio di vari giorni di cessate il fuoco. Un’implicita conferma che la strada scelta, al momento, è quella del “piccolo accordo”, sintetizzata dalla nuova proposta egiziana: due giorni di tregua in cambio della liberazione di quattro ostaggi e un “certo numero” di detenuti palestinesi. Su questa soluzione si dovrebbe lavorare nei prossimi giorni, secondo quanto confermato dal capo del Mossad, David Barnea che ieri è tornato in Israele dopo la due giorni di incontri con l’omologo della Cia, William Burns e il premier del Qatar, Mohammed bin Abd al-Rahman bin al-Thani. In ogni caso, si tratterebbe di un primo passo per la negoziazione di un’intesa più ampia. Obiettivo quest’ultimo a cui Hamas non rinuncia. Secondo quanto riferito da fonti interne al sito saudita al-Sharq, il gruppo armato sarebbe disposto ad accettare l’opzione del Cairo ma solo in chiave preliminare. La richiesta cruciale resta la fine della guerra e il completo ritiro dalla Striscia. Netanyahu, al contrario, ha sempre parlato di cessazione temporanea delle ostilità poiché il fine dell’offensiva resta la non precisata «vittoria totale» a cui sempre meno israeliani sono disposti a credere.