Bimbi giocano all'orfanotrofio di Kapisa
A soli sette anni, Kamir ha visto la sua vita cambiare repentinamente due volte. La prima quando un attacco taleban ha ucciso il padre. Quel giorno dell’inverno del 2021, il bambino è diventato uno delle centinaia di migliaia di “orfani bianchi” di mezzo secolo di conflitto che ha trasformato l’Afghanistan in un Paese di figli senza padri e donne senza mariti. All’epoca, Kapisa e l’omonima provincia erano sulla linea del fuoco tra le forze repubblicane ed ex studenti coranici. Il piccolo ricorda i combattimenti, i raid, gli agguati. E la paura diventata terrore dopo la morte del papà. «Non avevamo più soldi così mia madre ha portato me e i miei due fratelli a casa dello zio, vicino a Kabul – racconta –. Ma era brutto: lo zio non ci mandava a scuola. Ci faceva scaricare le cassette al mercato, tutto il giorno. Erano molto pesanti, spesso mi faceva male la schiena e cadevo. A lui, però, non importava. Diceva che non poteva mantenerci, dovevamo contribuire». È il destino comune degli “orfani bianchi”: gran parte degli 1,6 milioni di baby-schiavi stimati nel Paese dall’Unicef ha perso il padre ed è costretto a lavorare per mantenere la famiglia. A salvare Kamir da un’esistenza di sfruttamento è stato l’orfanotrofio pubblico Mahmood Raqi di Kapisa. Quando è arrivato, un anno fa, la sua vita è cambiata la seconda volta. Anche quella della madre che ha deciso di separarsi da lui pur di sottrarlo al lavoro schiavo.
«Sapeva che lo zio non mi avrebbe mai fatto studiare... Qui è bello: frequento la scuola, ho del tempo per giocare e non devo più andare al mercato». Chiusa nel tracollo economico seguito al cambio di regime di due anni fa, la struttura ha riaperto nel marzo 2022. «Grazie alla Fondazione Only the brave (Otb) che anche quest’anno ha rinnovato il sostegno all’associazione – spiega Susanna Fioretti, presidente di Nove onlus –, possiamo consentire all’orfanotrofio di dare cibo e formazione a 50 piccoli, in maggioranza “orfani bianchi”, facile preda dei moderni “schiavisti”». Specie ora che due terzi della popolazione sono alla fame a causa dell’interruzione degli aiuti internazionali, principale pilastro dell’economia afghana nel periodo repubblicano. «Un terzo della popolazione è malnutrita, tra i bambini la quota sale al 45 per cento», spiega Joanne Amara, vice-direttrice di Azione contro la fame in Afghanistan. Oltre alle 8 cliniche mobili e alle 60 unità di strada, l’organizzazione ha appena aperto un centro terapeutico per gravi casi di denutrizione fuori Kabul che affianca quelli di Lashkargah e Nawzad nell’Helmand. «Abbiamo 60 posti letto e sono sempre pieni». In uno giace Aziz di un anno. Una settimana fa, la madre l’ha portato qui a piedi da Botkhak, un villaggio a venti chilometri di distanza. «Non sapevo che altro fare. Non ci sono ospedali vicini. E il mio bimbo piangeva sempre e non cresceva. Ho capito che aveva fame ma non ho quasi più latte e il cibo è poco. Da quando mio marito mi ha lasciata vivo in casa di mio padre e siamo in tanti: mia sorella, i suoi due bimbi, i miei tre figli, io, i miei genitori. Tutti viviamo del piccolo campo, ma non basta». Da quando ha iniziato il trattamento, Aziz ha dato segni di miglioramento ma non è ancora fuori pericolo. «Prima avevo tanti sogni – conclude la donna –. Ora ne ho solo uno. Che Aziz e gli altri miei bambini possano diventare grandi. Inshallah».