Suor Akberet insieme a una sua consorella (Max Hirzel)
Viene lei, con il saio logoro, il rosario di legno al polso e i calzettoni di lana ai piedi, ad aprire il pesante cancello per farci entrare nel convento di clausura delle clarisse francescane di Addis Abeba. Una costruzione semplice e solida in legno, sotto l’ombra degli eucalipti, con un grande giardino fresco e silenzioso per pregare. Accanto, un’edicola semplice con l’effigie in plastica della Madonna di Fatima.
Ma questi sono tempi eccezionali, i giovani fuggono al ritmo di 200 al giorno dall’Eritrea verso l’Etiopia e allora suor Akberet, che in Eritrea è nata e qui è arrivata nel 1996, ha spalancato il cancello ai poverissimi del terzo millennio, i rifugiati. E va a bussare a tante porte per chiedere aiuto quando il servizio evangelico agli ultimi lo richiede. E tutta la sua opera è scandita dalla preghiera. «Una consorella ed io abbiamo aperto il convento – racconta – poi con la guerra tra Etiopia ed Eritrea tutto è diventato difficile». Sono sempre due le sorelle della chiesa di Santa Chiara: la loro giornata inizia prima dell’alba e si chiude verso mezzanotte perché sono tanti i poveri che bussano, tanta la miseria e la disperazione dei giovanissimi profughi cattolici e non – fuggiti dal piccolo Stato del Corno per non fare il militare a vita –, venuti via dai campi per vivere in città come urban refugees. Non hanno altro posto dove andare per invocare aiuto o solo per stare insieme e farsi forza.
«Possiamo soprattutto dare conforto spirituale – continua la suora – perché non abbiamo nulla. Riceviamo pochi aiuti e quel poco lo dividiamo con i poveri. Circa 450 ragazzi e ragazze frequentano la chiesa, li abbiamo divisi in diversi gruppi di preghiera, ogni giorno ne viene uno diverso. Diamo loro la colazione, poi preghiamo. Per il pranzo cuociamo il pane e lo dividiamo. La domenica viene un salesiano a celebrare la Messa».
La chiesa è piccola, eppure i giovani si stringono per stare davanti alle statue della Vergine e di Chiara. Akberet, che significa “onorata” in tigrino, ha capito che pregare insieme è un balsamo per una gioventù che sta trascorrendo gli anni migliori senza poter fare nulla – in Etiopia ai rifugiati non è consentito lavorare e non possono neppure migrare negli altri Paesi africani – nel vuoto disperato e senza tempo dei campi profughi o in appartamenti sovraffollati in città. Oppure in strada. Ritrovarsi a Santa Chiara a pregare e parlare aiuta almeno a cercare un senso e la forza di affrontare dolore e sconforto, per non impazzire per mancanza di futuro.
Akberet sorride sempre. Se può si occupa non solo dello spirito, ma con grande discrezione e determinazione anche dei casi più disperati senza guardare alla religione. Ha segnalato alcune delle persone in arrivo stamane a Fiumicino, tra cui una famiglia poverissima di eritrei ortodossi. Il capofamiglia è passato domenica ad abbracciarla commosso: «Non abbiamo niente – si schermisce –. Provo ad insegnare l’italiano ai ragazzi, facciamo conferenze per spiegare loro che non devono partire per l’Europa con i trafficanti, che il deserto, la Libia e il Mediterraneo possono diventare la loro tomba. Ma sono disperati e vogliono partire nonostante sappiano che tanti coetanei passati di qui negli ultimi anni sono morti o scomparsi».
La suora ricorda spesso, nella preghiera, i ragazzi morti, consola con la dolcezza di una sorella le loro madri, prega soffrendo come una madre per ciascuno di quelli che sono partiti, e stanno affrontando il viaggio, perché Dio li protegga nell’inferno della Libia.
Il giardino si è popolato di giovani eritrei che ridono e scherzano nonostante tutto. Akberet vorrebbe con il cuore organizzare corsi di formazione per trattenerli. «Meglio qui che morti o in prigione», dice. Ma non ha fondi né può farsi carico di questo compito, del suo caso si sta interessando dall’Europa don Mosè Zerai. Eppure anche così si potrebbe prevenire il traffico che ingrassa i trafficanti di morte dell’Africa, salvare vite, restituire speranza.
«La chiesa è un ospedale per i peccatori, non un museo di santi». La scritta incorniciata sul muro del convento sembra il motto della clarissa che affronta il dolore dei profughi di Addis Abeba.