La festa di Natale al Centro S. Rachele del Patriarcato latino di Gerusalemme
Anche per questo popolo di senza nome, o meglio di “sans papier”, la salita a Gerusalemme è possibile. Sono i figli delle “maid”, donne di servizio e badanti impiegate nelle case della alta borghesia di Gerusalemme Ovest, oppure addette alle pulizie negli hotel: minori senza nome, almeno per l’anagrafe, perché nati da rapporti “illegali”. Le donne – in gran parte africane e dell’estremo Oriente – che entrano in Israele con regolare visto, si impegnano a non avere figli durante il periodo di soggiorno o a rientrare nel Paese di origine entro i tre mesi dalla nascita di un bambino. La presenza di questi figli è tuttavia tollerata dalle autorità, mentre le madri diventano delle “invisibili”: senza regolare permesso di soggiorno e quindi con lavori precari e senza contratti regolari. L’esito sono sfruttamento ed emarginazione capaci anche di produrre morte: fu infatti dopo che nel 2015 alcuni bambini morirono per un incendio in un angusto locale trasformato in un improvvisato “kinder garden” che il patriarcato latino di Gerusalemme decise di intervenire attraverso il Vicariato per i migranti e i richiedenti asilo.
Un volersi prendere cura dei senza nome, di quei figli della “cultura dello scarto” che ha dato vita al centro Santa Rachele, nel complesso che è proprietà del convento dei Cappuccini a Gerusalemme Ovest: aperto nel 2016 per diretta volontà del Patriarcato latino, è una semplice struttura di cemento con due aree giochi antistanti: un salone serve come punto di incontro per i ragazzi che raggiungono il centro dopo la scuola. Altre stanze sono adibite a spazio giochi, per i compiti o le attività di gruppo. A fianco del centro educativo un appartamento per i volontari. Da cinque mesi ormai è abitato da una coppia missionaria “fidei donum” della diocesi di Milano in Israele: «Gerusalemme è un luogo di incontri e di conflitti continui. Vivere qui, fra questi ragazzi, ci costringe ad entrare in relazione con una serie infinita di mondi e di situazioni anche conflittuali che cerchiamo semplicemente di abitare puntando semplicemente sul fatto di essere una famiglia», spiega Giacomo Giardini seduto nella sua cucina con a fianco la moglie Arianna Sfrondini e il piccolo Agostino in braccio.
La giovane coppia italiana è l’anima del “Guardianangel house”, la casa famiglia che ospita sette minori che da domenica a venerdì, quando non sono a scuola, vivono permanentemente nella struttura: «Serviva la figura di una famiglia che assicurasse, rispetto a volontari che si alternano, una maggiore stabilità educativa » aggiunge Giacomo Giardini, una laurea in filosofia che in Italia si immagina un futuro da insegnante. I ragazzi della “house” hanno madri che per orari di lavoro, lontananza o disagio non sono in grado di accudirli durante la settimana. Sono tutti ragazzi cristiani, figli di donne etiopi, eritree e cingalesi, come la trentina di minori che vengono accolti nell’asilo nido (da 0 a 3 anni) e la trentina di ragazzi, dalle elementari fino alle superiori, che frequentano il doposcuola. Danielle, giovane ebrea cristiana e Suor Maria David dirigono tutte le attività assieme a tre educatrici e numerosi volontari.
Un angolo di normalità per degli “irregolari” che al compimento del 18esimo anno di età diventeranno dei senza nome. «Alle loro madri insegniamo il Vangelo dell’accoglienza, del rispetto: le donne che sono impiegate nelle case e negli alberghi di Gerusalemme con il loro lavoro di cura, umile e sconosciuto, possono essere una immagine della Misericordia di Dio», afferma suor Gabriele Penka del vicariato per i migranti. Anche il popolo dei senza nome, grazie al Centro Santa Rachele, ha trovato a Gerusalemme un posto e un nome.