Joe Biden firma gli Executive orders per la giustizia razziale. Dietro di lui, la vice presidente Kamala Harris - Ansa
Finiti i tempi dei rapporti ambigui e controversi dell’era Trump, la relazione tra Washington e Mosca riparte con una telefonata dai toni netti e franchi – termine che in diplomazia si traduce anche con «accesi» – tra il neopresidente Usa Joe Biden e il numero uno del Cremlino Vladimir Putin. È il primo contatto tra i due dopo il cambio di leadership alla Casa Bianca, anche se già da vicepresidente di Barack Obama Biden aveva avuto modo di saggiare la tempra del presidente russo.
Da esperto negoziatore, Biden è andato di bastone e di carota, ma senza mollare di un centimetro, proprio a imprimere un cambio di passo rispetto a Trump. Così, il nuovo presidente Usa ha da un lato ribadito la sua offerta di rinnovare per cinque anni il trattato Start sugli arsenali nucleari in scadenza il 5 febbraio ma, dall’altro, ha contestato allo «zar» le interferenze russe sulle elezioni Usa, i ripetuti cyber-attacchi di Mosca e le presunte taglie per l’uccisione di soldati americani in Afghanistan.
Non solo: Biden ha espresso tutta la sua «preoccupazione» per l’avvelenamento del leader dell’opposizione russa Alexeij Navalny – i cui mandanti, da più parti, vengono fatti risalire proprio al Cremlino – e sulla repressione delle proteste a Mosca. Infine, Biden ha confermato la linea dura sull’Ucraina: gli Usa danno forte sostegno alla sovranità di Kiev contro «l’aggressione russa in corso».
Sarebbe bastato molto meno per irritare Putin, la cui posizione si sarebbe infatti irrigidita nel corso della telefonata. Dopo la quale, però, il Cremlino è sembrato voler gettare acqua sul fuoco, limitandosi a riferire che Putin si è detto a favore della «normalizzazione» delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, «nell’interesse di entrambi i Paesi e dell’intera comunità internazionale».
Una dichiarazione di prammatica, dunque, senza riferimenti a temi specifici, segno evidente che le due capitali sono ancora distanti. In un altro segnale di rottura con il recente passato, peraltro, Biden ha chiamato ieri anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg «ringraziandolo per la sua salda leadership dell’Alleanza» e esprimendo la sua «intenzione di consultarsi e lavorare con gli alleati su tutte le questioni condivise di sicurezza, compresi Afghanistan, Iraq e Russia». Basta pensare alle bordate che da Washington sono partite all’indirizzo della stessa Nato durante la presidenza Trump per segnalare, anche in questo caso, un nuovo inizio.
Intanto, mentre sul fronte interno tiene banco l’impeachment per Trump («penso vada fatto», la posizione di Biden), il nuovo capo della Casa Bianca ha firmato altri ordini esecutivi, questa volta per l’equità e la giustizia razziali, un’altra delle promesse della sua campagna elettorale e una delle sfide maggiori che lo attendono. «L’America non è mai stata all’altezza della sua promessa fondamentale di eguaglianza per tutti ma non ha mai cessato di provarci», ha osservato Biden prima di firmare vari decreti che affrontano tre emergenze.
La prima è la riforma della polizia dopo l’ondata di proteste per l’uccisione di George Floyd e di altri afroamericani da parte di agenti, con la creazione di una commissione ad hoc e il divieto di trasferire equipaggiamento militare ai dipartimenti locali. La seconda è la riforma del sistema penitenziario, con il miglioramento delle condizioni dei detenuti e lo stop a nuovi contratti con le carceri private. La terza è quella delle case per i più poveri, promuovendo politiche non discriminatorie nell’edilizia popolare. Il razzismo, è la convinzione di Biden, si vince anche partendo da qui.