I primi soccorsi in una postazione dell'esercito iracheno a sfollati in fuga da Mosul (Epa)
Prosegue a rilento l'avanzata dell'esercito iracheno e delle milizie alleate a Mosul, nel nord dell'Iraq, la roccaforte del Daesh ormai quasi del tutto liberata. Gli scontri continuano a Mosul est, ma martedì il premier iracheno Haider al-Abadi si è congratulato che lo forze armate per la «grande vittoria». Secondo fonti militari, sono circa 300 i jihadisti ancora presenti nella città vecchia, asserragliati in uno spazio residuo in mezzo chilometro quadrato: il 9 giugno del 2014 l'intera città era caduta in mano al Daesh, mentre dallo scorso mese di ottobre è in atto l'offensiva militare dell'esercito iracheno, in collaborazione con i peshmerga curdi e le milizie sciite per riconquistarla.
Allarme della Focsiv: «120mila civili senza aiuti adeguati»
Mentre il rientro dei civili nella zona Est della città, ormai completamente liberata, pare avviato, è allarme umanitario per i circa 120mila civili che sono fuggiti negli ultimi due mesi dalla città vecchia di Mosul dove erano ostaggi dei combattimenti, spesso impiegati come scudi umani. Secondo le Nazioni Unite sono circa 800mila i civili usciti dalla città da quando, lo scorso mese di ottobre, è iniziata l'offensiva decisiva. Circa la metà hanno trovato assistenza in campi organizzati dall'Unhcr, in centri di accoglienza molto lontani dal confine del Kurdistan iracheno. «In queste ultime settimane si sono verificati i primi ritorni di famiglie a Mosul Est per impedire episodi di sciacallaggio e per una scarsa fiducia di queste popolazioni a maggioranza sunnita per la presenza di milizie sciite riconosciute da Baghdad», spiega Marco Pala, volontario Focsiv a Erbil. Particolarmente critica in queste ultime settimane la situazione dei profughi fuggiti dalla parte ovest: «Non sono ospitati in strutture definite, ma vivono sotto tende o semplici teli lungo la strada. Le organizzazioni umanitarie provvedono, in modo occasionale, alla distribuzione di acqua e cibo senza che vi sia la reale possibilità di censire e raggiungere tutti questi sfollati». Una situazione resa ancora più drammatica dalle temperature che durante il giorno superano i 45 gradi, mentre si registrano casi di disidratazione e dissenteria e si teme il diffondersi di malattie infettive.
Sako: no ad «agende straniere» per il futuro di Ninive
Una situazione di giorno in giorno sempre più difficile, mentre si registra una situazione di stallo dovuta alla grande incertezza politica. Questa è evidente in modo particolare nei profughi fuggiti due anni fa e che ora sono accolti in varie strutture in Kurdistan e che, per iniziare un significativo contro esodo verso Mosul e la vicina Piana di Ninive chiedono sia garantita la sicurezza invocando moto spesso la protezione internazionale. Una situazione che alimenta le profonde discussioni tra i cristiani iracheni sul futuro della Piana di Ninive, la storica culla delle comunità cristiane della Mesopotamia da poco sottratta al controllo del Daesh. Il patriarca caldeo Louis Raphael Sako, ha ammonito che il diritto a decidere del futuro della Piana di Ninive va riservato «alle persone indigene di quella regione, verificando se esistono anche partiti politici che davvero le rappresentano nelle loro aspirazioni». Con un messaggio condiviso anche dagli altri vescovi caldei e rilanciato da “Fides”, il patriarca Sako pur apprezzando l'interessamento di quanti vivono nelle comunità caldee della diaspora, ha affermato che costoro non possono pretendere di avere un ruolo determinante sul futuro della Piana di Ninive, perché «sono lontani dalla situazione presente» e dalle reali preoccupazioni degli abitanti di quell'area. Se si dovrà ridisegnare la mappa della Piana di Ninive, i cristiani di quell'area devono riconfigurarla insieme ai loro conterranei musulmani e delle altre comunità religiose, senza farsi condizionare da «agende elaborate all'estero o da interessi meschini». Il primate della Chiesa caldea ha pure invitato a «rimanere realisti, dopo tutto quello che si è sofferto» considerando paradossale che la discussione sul futuro assetto politico-amministrativo della Piana di Ninive avvenga senza tener conto della reale situazione di fatto della gran parte dei cristiani di quella regione, le cui case sono state demolite o danneggiate durante l'occupazione jihadista e le successive operazioni militari. La necessaria ricerca una soluzione condivisa, confrontandosi sia con il governo centrale di Baghdad che con i governi locali e regionali, compreso quello della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, per il patriarca Sako non esclude la possibilità di chiedere forme di tutela internazionale sull'area, che rassicurino le popolazioni locali.