mercoledì 2 agosto 2023
La mossa di apparente distensione è stata fatta in occasione della “Quaresima buddhista”. La giunta vuole mostrare apertura, ma proroga lo stato di emergenza, e quindi anche le elezioni
Aung San Suu Kyi in una foto di archivio

Aung San Suu Kyi in una foto di archivio - Ansa

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Non si è ancora conclusa la lunga serie di procedimenti giudiziari nei confronti di Aung San Suu Kyi, agli arresti dal colpo di Stato militare del primo febbraio 2021, ma ieri i complessivi 33 anni di carcere raccolti finora sono stati ridotti di sei anni. A carico della 78enne Premio Nobel per la Pace, guida del movimento democratico dal 1988, restano ancora 14 capi d’accusa. Con lei anche il presidente della repubblica deposto dal golpe, Win Myint ha ottenuto un perdono parziale. L’occasione, ha spiegato un portavoce della giunta al potere, è una più ampia amnistia garantita a 7.000 detenuti in occasione dell’inizio della "Quaresima buddhista". Non una novità assoluta quella delle amnistie che in occasione di particolari ricorrenze restituiscono la libertà a migliaia di carcerati, tuttavia la riduzione della pena complessiva per Aung San Suu Kyi si inserisce in un perenne tiro alla fune tra i vertici delle forze armate guidati dal generale Min Aung Hlain e le forze democratiche che continuano a opporsi, nelle piazze, con azioni di boicottaggio e disobbedienza civile ma anche con le armi al “fatto compiuto” del ritorno al potere degli uomini in divisa che, dopo avere gestito la dittatura tra il 1962 e il 2011 sembravano avere concesso uno spazio alla vita democratica per poi fare marcia indietro oltre due anni fa.
Fallito finora il tentativo di indurre la loro principale rivale a una qualche forma di accoglienza delle loro pretese di controllo del Paese, hanno spostato Aung San Suu Kyi, in diversi luoghi di reclusione nella capitale Naypydaw, e una settimana fa l’hanno trasferita dal carcere ai domiciliari. Dall’arresto, di lei esiste una sola foto rubata in un’aula di tribunale vuota, anche se le sue condizioni di salute sembrano buone. Per fonti prossime al movimento democratico, la mossa di ieri, è il massimo che i militari potessero concederle senza mostrare segnali di debolezza a una popolazione che, contrariamente al precedente mezzo secolo di dittatura, sembra ora compatta nell’ostacolare il percorso annunciato dai generali dal colpo di stato verso nuove elezioni e una “vera democrazia” da essi diretta. A questo proposito, lunedì scorso il generale-presidente Mint Shwe ha informato che il Consiglio nazionale per la difesa e la sicurezza nazionale ha rinnovato per altri sei mesi lo stato d’emergenza in scadenza e di conseguenza decretato un ulteriore rinvio delle elezioni che la Costituzione del 2008, scritta dai militari, prevede non si possano tenere prima di sei mesi dalla fine dell’emergenza. Intervenendo alla radiotelevisione nazionale, lo stesso capo del regime ha riconosciuto che il Myanmar non è ancora sotto il suo pieno controllo. «Abbiamo bisogno di tempo per continuare una preparazione sistematica come nostro dovere, poiché non dovremmo affrettare le prossime elezioni», ha spiegato.
Continuano intanto le violenze e sono un milione e mezzo gli sfollati che vivono in condizioni di disagio e rischio lontano dai loro villaggi distrutti nei combattimenti o incendiati per ritorsione. Sulle vittime gli scambi di accuse sono reciproci. I morti dovuti alla repressione sarebbero per l’opposizione 3.800 (e 24mila gli arrestati), mentre per la giunta i «terroristi» che le si oppongono avrebbero ucciso 5.000 persone.
Finora le pressioni internazionali sul regime non hanno dato risultati concreti, e nemmeno quelle sulle parti per portarle al negoziato. I Paesi della regione che avrebbero maggiore possibilità di forzare i militari a un qualche compromesso continuano a mantenere il principio della non-ingerenza nonostante al loro interno non manchino voci che chiedono un intervento più incisivo.

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