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Quando la musica si è fermata». Il massacro dei giovani riuniti al Festival Nova è stato uno dei momenti più tragici del 7 ottobre 2023. Per ricordarlo, all’alba di lunedì, le famiglie delle 364 vittime e quaranta rapiti torneranno nella spianata adiacente al kibbutz Re’im. Alle 6.25 verrà suonato lo stesso brano di un anno fa. Quattro minuti dopo – le 6.29, l’ora esatta dell’attacco– sarà interrotto, come è accaduto allora, in seguito all’irruzione di Hamas. La sera, sempre i familiari, hanno organizzato un maxi-raduno allo Yarkon Park di Tel Aviv a partire dalle 19 locali (le 18 in Italia). Nelle stesse ore, ci sarà la commemorazione ufficiale prevista dal governo di Benjamin Netanyahu a Ofakim. I parenti non hanno voluto prendervi parte perché accusano l’esecutivo di volere strumentalizzare la memoria dei morti per eludere le proprie responsabilità. Nei 27 kibbutz e città attaccati dal gruppo armato, inoltre, durante la giornata ci saranno delle cerimonie particolari, in gran parte privata. Domenica sera dalle 18.29 locali (le 17.29 italiane), le “Famiglie del 7 ottobre” – il gruppo più critico nei confronti del premier e contrario alla guerra – ha convocato un momento di raccoglimento e riflessione a Tel Aviv a cui parteciperanno molti attivisti per la pace. L’associazione ha rivolto un appello al governo «che li ha abbandonati» a non utilizzare le foto e i nomi dei propri cari nell’evento ufficiale. «Non manipolate la loro memoria per fini politici», si legge nella lettera.
Sul tavolo giace il lampadario caduto dal soffitto. Un braccio sembra protendersi in avanti, come a coprire la crepa che ferisce il marmo bianco. Un anno dopo, la veranda, al pari del resto della casa, appare intrappolata in un 7 ottobre senza fine. Congelata nell’istante in cui, poco dopo le 6.30 del mattino, 150 miliziani di Hamas hanno fatto irruzione nel kibbutz di Nir Oz. Solo sei abitazioni si sono salvate dalla loro ansia di distruzione. Quella di Yocheved e Oded Lifshitz non è fra queste, come raccontano i muri anneriti dal fumo, il pianoforte frantumato, il giardino dei cactus – uno dei tre più belli del Paese – vandalizzato. Nella staticità esanime delle rovine, però, si insinua un sussulto di vita. Sullo stesso tavolo dissestato del patio, ci sono una lattina di birra aperta e due bicchieri puliti. «Ogni venerdì o sabato vengo qui, li lavo, mi siedo, verso la birra, metà per me, metà per Oded, e gli descrivo la mia settimana, gli confesso i dubbi, le paure, come ero solita fare prima. È il modo per dirgli che mi manca. E che lo aspetto», racconta la nuora Rita. «Non è solo mio suocero. È un padre, un amico e un maestro».
Il famoso scrittore e giornalista 84enne, appassionato difensore della pace e della giustizia con e per i palestinesi, è da 365 giorni a Gaza, nelle mani di Hamas. La moglie Yocheved, fotografa 85enne, è stata liberata due settimane dopo il massacro, il 23 ottobre scorso, insieme alla vicina 79enne Nurit Cooper, «per ragioni umanitarie». Prima di uscire dal valico di Rafah, al sequestratore che la scortava, ha detto: «Shalom, Salam», cioè «pace», in ebraico e arabo. Quello in cui aveva sempre creduto e continua a credere, nonostante l’orrore. Tanto da guardare negli occhi il leader dell’organizzazione terrorista, Yahya Sinwar, incontrato nel tunnel della prigionia, e sfidarlo: «Non si vergogna di fare questo a delle persone che si battono per i diritti dei palestinesi?». Yocheved non ha ottenuto risposta. Sinwar – ha detto – è rimasto in silenzio. Lo stesso silenzio in cui agonizza il destino del marito e degli altri ventotto abitanti del kibbutz ancora nella Striscia, che si estende là proprio dietro la recinzione.
Rita la indica con la mano. «Ormai si parla solo degli attacchi a Hezbollah, della morte di Nasrallah, dell’invasione del Libano, dello scontro con Teheran. Nessuno sembra ricordarsi degli ostaggi. È passato un anno, come è possibile che non siano ancora tornati a casa? Per favore aiutateci a riportarli qui», dice, senza nascondere la commozione, ai giornalisti che ha accettato di accompagnare per Nir Oz alla vigilia dell’anniversario della strage, nella speranza di «riposizionare il focus» sui 101 dei 251 catturati da Hamas e ancora in cattività.
«Su di loro e sulla pace. Non si parla che di guerra. Noi chiediamo pace». Rita alza la voce per sovrastare il tonfo delle bombe che lacerano Gaza. «Non vogliamo tutto questo… E ora Beirut, l’Iran… Perché la comunità internazionale non ha vigilato sul flusso di denaro con cui Hamas ha comprato le armi e ha costruito i tunnel? Perché si è permesso di arrivare a questo punto? E quanto ci vorrà ancora per il cessate il fuoco? Si ritiene che 35 dei 101 sequestrati siano morti. Quanti di loro sarebbero vivi se fosse stata fatta la tregua? E quanti altri moriranno nell’attesa che si faccia? Basta distruggere, dobbiamo ricostruire Nir Oz e Gaza e vivere insieme».
Delle ventisette comunità israeliane costruite a ridosso dell’enclave, questa è la più vicina: un chilometro scarso. Perciò è stata la più colpita. I miliziani l’hanno raggiunta a piedi o in moto e si sono accaniti per otto ore. Quando i soldati, otto ore dopo, sono finalmente arrivati erano già fuggiti, lasciandosi alle spalle una carneficina. Più di un quarto dei residenti – 117 su 400 – è stato assassinato o sequestrato. L’80 per cento delle case e le principali strutture comuni – il supermercato, l’asilo, la mensa – sono un cumulo di macerie, su cui spiccano le foto delle vittime. Per riedificarle, secondo le stime delle autorità, ci vorranno tra i due e i tre anni. Nel frattempo, a differenza di altri kibbutz attaccati, nessuno dei sopravvissuti è tornato in pianta stabile: dopo sei mesi in un hotel a Eliat, si sono trasferiti a Kiryat Gat, una sessantina di chilometri a nord. In questi giorni, però, la gran parte è rientrata per ricordare chi manca, sistemandosi nelle dimore ancora in piedi. Familiari si sono uniti a loro da altre parti del Paese. Camminano fra le rovine, danno da mangiare ai gatti, potano i cespugli di lavanda che nel frattempo sono rifioriti in un’assurda normalità.
Nonostante l’evidente devastazione, Nir Oz emana energia vitale. Quella di una comunità piccola, molto unita e impegnata da sempre nel dialogo, capace di trasformare il lutto in forza per andare avanti. «Prato dove fiorisce il coraggio», del resto, significa il nome scelto dai fondatori, 69 anni fa. All’epoca, Margit e Yossi Silberman erano ancora in Argentina. La violenza dei militari verso chiunque si impegnasse per la giustizia sociale, negli anni Settanta, li avrebbe fatti approdare nel kibbutz. Là sono rimasti fino al 7 ottobre quando i terroristi hanno appiccato il fuoco alla loro casa. Margit, 63 anni, malata di Parkinson, non è riuscita a fuggire. Yossi, 67 anni, da solo, ce l’avrebbe fatta ma – da «argentino rosso e testardo», come lo definiscono i familiari - non ha voluto lasciarla. Le loro ceneri sono state trovate due settimane dopo. Non hanno mai saputo che, mentre l’incendio divampava, nella casa di fronte, la figlia Shiri, il marito Yarden e i due figli – Ariel, 4 anni, e Kfir, 9 mesi – venivano portati via a forza mentre ancora dormivano. Non sono più tornati.
«Dove sono? Non ho più voce per gridarlo ma non posso tacere. Dovete ridarceli, se non loro almeno i corpi. Allora, forse, potrei dormire di nuovo. Vi supplico: dove sono?», ripete con la voce strozzata dal pianto Yfat Zeiler, nipote di Margit e Yossi e cugina di Shiri, nell’asilo “Strawberry” (Fragole, in inglese) di cui la zia è stata direttrice fino a quando il morbo l’ha costretta a ritirarsi. «Ha allevato due generazioni di Nir Oz. Per questo ho voluto portarvi qui – aggiunge, appena riesce di nuovo a parlare –. E perché fra questi banchi sedevano Ariel e Kfir, gli ultimi due bambini ancora in cattività, il giorno prima di essere rapiti».
Su alcuni ci sono ancora dei melograni di plastilina, ormai secchi, che i piccoli allievi avrebbero dovuto dipingere. C’è anche quella di Liel, venti mesi, scampata all’ultimo alla prigionia a Gaza insieme alla madre, Bar-Sheva Yahalomi, e alla sorella Yael, 10 anni. La moto su cui erano stati caricati ha sbandato proprio di fronte all’entrata nella Striscia. Il miliziano alla guida è caduto. La donna e le bimbe ne hanno approfittato per fuggire, attraverso i campi, sotto la pioggia di fuoco tra esercito e Hamas. Prima di scappare, Bar-Sheva, ha visto l’altro figlio, Eithan, 12 anni, varcare la soglia dell’enclave a bordo di un’altra moto. «Ho avuto l’impulso di seguirlo, ma dovevo salvare Yael e Liel», dice quasi a sé stessa, ancora lacerata dal senso di colpa nonostante il ritorno di Eithan 52 giorni dopo, grazie al primo e unico accordo di tregua siglato tra il governo di Benjamin Netanyahu e il gruppo armato lo scorso novembre. Ohad, il marito, colpito a una gamba mentre cercava di impedire ai miliziani di entrare in casa, è ancora là. Il 20 gennaio, Hamas l’ha immortalato ferito, nel letto di un ospedale di Gaza. Al termine, una scritta inquietante: il 49enne sarebbe rimasto ucciso nei raid israeliani. «Da allora più niente. È questa la parte peggiore: non sapere», sospira Bar-Sheva.
«L’incertezza è un masso che ti opprime il petto ogni minuto del giorno – le fa eco Yfat -. Non sono mai stata tanto tempo senza parlare con Shiri, con Yarden, con i bambini… Come sarà Kfir ora? A volte penso che nemmeno lo riconoscerei. Aveva nove mesi quando l’hanno preso: non sapeva nemmeno cosa fosse la politica. È solo nato da questa parte del confine. Rapire i neonati, uccidere gli anziani, bruciare e distruggere, non è questo il modo di liberare la Palestina. La mia famiglia e io sosteniamo da sempre la soluzione dei due Stati e la necessità di vivere in pace con i palestinesi. Né loro né noi abbiamo altro posto dove andare. C’è troppa rabbia, troppo odio nel mondo. Mi rifiuto di aggiungerne altro. Credo nel dovere di custodire la compassione. Non è facile. Ma è ciò che ci rende umani».