È passato un anno, ma nemmeno la realtà di un Paese alle prese con la pandemia da coronavirus con 190 casi ufficialmente registrati di contagio e sette decessi finora, può far dimenticare la Pasqua insanguinata del 2019.
Il 21 aprile 2019 furono 258 i morti (una quarantina gli stranieri), mezzo migliaio i feriti e - ancora una volta in Sri Lanka - la situazione aprì un solco di sospetto e ostilità che ha segnato un società multietnica e plurireligiosa già segnata dopo la fine, 11 anni fa, di un conflitto trentennale tra singhalesi, maggioritari e di fede buddhista e tamil di fede perlopiù induista. Oggi, in una situazione in cui i tamil continuano a subire la loro situazione minoritaria e di sconfitta, sono anche i musulmani a subire discriminazione e emarginazione.
Una situazione che apre al rischio di radicalizzazione. Musulmani, infatti, del movimento integralista National Thawheedh Jamaath e dell’oscura cellula radicale Jamathei Millathu Ibrahim sarebbero stati mandanti e esecutori degli attacchi quasi contemporanei portati contro tre grandi alberghi (Shangri-La, Kingsbury e Cinnamon Grand) e tre chiese cristiane nella capitale Colombo (St. Anthony, cattolica), nella non lontana Negombo (St. Sebastian, pure cattolica) e nella città orientale di Batticaloa (la protestante Zion Church). Altri episodi terroristici con minori conseguenze, si registrarono nelle ore successive in aree diverse, forse anche come reazione alle azioni delle forze di sicurezza contro i militanti islamici.
Tutti obiettivi comunque non solo facili - in una situazione che sembrava avere allontanato le memorie del conflitto, delle azioni terroristiche e della risposta indiscriminata delle forze armate e allentato i controlli un tempo intensi - ma anche altamente simbolici: gli alberghi, come luoghi primari di raccordo con il mondo della realtà isolana che stava recuperando investimenti e turismo; le chiese perché espressione di una minoranza pacifica e integrata (l’otto per cento della popolazione) ma pretestuosamente associata dalla propaganda islamista agli interessi dell’Occidente e praticamente indifesa. Anche incapace di una ritorsione estesa verso i musulmani che avrebbe probabilmente attivato una risposta violenta precipitando nuovamente l’isola nel caos.
La catena di eventi della “Pasqua di sangue” precipitò di nuovo lo Sri Lanka nell’incubo della guerra civile, fino a quando, con modalità perlopiù nascoste anche ai mass media, le forze armate riuscirono nei giorni e settimane successive a cancellare di fatto la rete jihadista e terrorista ritenuta responsabile degli attacchi: individui o interi nuclei familiari sovente neutralizzati o catturati nelle loro abitazioni con modalità che hanno sollevato molti dubbi anche sull’uso politico delle azioni repressive, per molti funzionale alla contesa in corso tra il presidente Maitripali Sirisena e il primo ministro Ranil Wickremesinghe. Lo stesso Wicremesinghe dovette ammettere che una decina di giorni prima degli attacchi portati perlopiù da dinamitardi suicidi i servizi di sicurezza indiani avevano allertato le autorità srilankesi di azioni imminenti. Un’allerta comunicata al governo dal capo della polizia, inascoltata, mentre due giorni dopo la Pasqua di sangue arrivava sul sito jihadista Amaq la rivendicazione del Daesh, insieme alle foto dell’organizzatore delle stragi e di sette esecutori, tutti definiti “combattenti dello Stato islamico”.
Tuttavia, la catena di attentati, la peggiore aggressione islamista della storia del Paese, indipendente dal 1948, ha suscitato non soltanto dolore, rabbia e terrore, ma anche interrogativi sulle ragioni e sui protagonisti. Ad esempio sono arrivate a confermare che - come nel caso della strage nel ristorante Holey Artisan Bakery del 1° luglio 2016 della capitale bengalese Dacca dove furono 24 i morti, tra cui nove italiani - a organizzare e portare a termine azioni spettacolari e letali non sono più o non solo musulmani provenienti da settori impoveriti ed emarginati della società, ma al contrario membri di famiglie benestanti, con possibilità di studiare e viaggiare all’estero, spesso in Occidente, e qui ricevere l’indottrinamento jihadista.
Uno degli attentatori che si è fatto esplodere in un hotel a Dehiwala, area meridionale della capitale, Abdul Lathief Jameel Mohamed, aveva studiato scienze aerospaziali all’Università di Kingston (Regno Unito) e in Australia prima di essere attratto dalla propaganda del Daesh. Un suo compagno, molto attivo su internet, Zahran Hashim, quasi contemporaneamente aveva attivato la bomba che ha ucciso cinque cittadini britannici nello Shangri-La di Colombo, successiva all’esplosione attivata dal 36enne Ilham Ibrahim, figlio di un ricco commerciante di spezie. Suo fratello maggiore, Inshaf, sarebbe stato il responsabile della devastazione e delle vittime nel Cinnamon Grand Hotel. Connessioni familiari, che includono il padre Younis con un ruolo chiave nella preparazione delle azioni e arrestato con una quarantina di jihadisti. La moglie incinta di Ibrahim sarebbe morta suicida con i tre figli facendosi esplodere durante l’assedio della sua abitazione da parte delle forze speciali.
Carnefici e vittime, vite che si sono intersecate per caso, distrutte o cambiate in un istante. Come la britannica Anita Nicholson e i due figli colpiti dall’esplosione mentre erano in coda per la colazione nella sala da pranzo dello Shangri-La. Il marito di Anita fu tra i primi a intervenire e cercare tra le vittime i propri cari. Nello stesso albergo, altri due britannici, due adolescenti, Daniel Linsey e Amelie Linsey, sopravvissuti alla prima esplosione, sono deceduti nella seconda pochi minuti più tardi. La stessa che ha messo fine alle giovani vite dei tre figli del miliardario danese Anders Holch Povlsen.
Bambini in preghiera a Bangalore, in India, per le vittime della strage di Pasqua in Sri Lanka - Ansa
Ci volle del tempo prima che in nelle chiese ripartissero le funzioni domenicali, poi interrotte a intermittenza per i rischi di nuove azioni terroristiche. Il 12 maggio, durante la celebrazione della Messa nella chiesa di Santa Teresa a Colombo blindata dai militari, l’arcivescovo di Colombo, cardinale Malcolm Ranjit guidava la prima celebrazione domenicale pubblica dopo le stragi. Era stato lo stesso Cardinale a chiedere che fossero chiuse le chiese nelle tre settimane precedenti e che le celebrazioni venissero registrate e diffuse dal vivo dalla televisione nazionale.
Da subito la Chiesa cattolica ha messo al centro non paura o rivendicazioni ma rinascita e fratellanza. Davanti alla devastazione della chiesa dedicata a San Sebastiano a Negombo, dove si contarono 100 morti, tra cui molti bambini, nella prima Messa celebrata nell’oratorio con un migliaio di partecipanti di cui molti avevano perduto i propri cari, durante il sermone l’appello di padre Shiral Fonseka è stato chiaro: “Abbiamo perso molte vite ma non dobbiamo perdere la speranza”. Una speranza alimentata anche dal sostegno della Chiesa universale, con iniziative della Caritas, di Conferenze episcopali, delle reti missionarie e di altri organismi, tra cui aiuto alla Chiesa che soffre.
Un sostegno, quello della Conferenza episcopale italiana ribadito direttamente dal suo presidente, il cardinale Gualtiero Bassetti, durante la benedizione annuale dei malati nella Basilica di Tewatte, il 25 agosto dello scorso anno. Un viaggio, il suo, programmato prima degli attentati di Pasqua e che significativamente ha associato anche don Leonardo Di Mauro, responsabile Cei per gli Aiuti al Terzo Mondo. Lo Sri Lanka è da tempo incluso nei programmi di sostegno della Chiesa italiana alimentati dai fondi dell’8 per mille e centrali nella visita di Bassetti sono state, oltre alle visite alle chiese colpite dagli attentati, l’inaugurazione dell’Istituto agricolo di Waradala e di un’estensione dell’Istituto Benedetto XVI di Nogombo, un progetto dell’arcidiocesi di Colombo per la formazione dei giovani che non possono studiare all’estero. “Abbiamo incontrato un popolo ferito profondamente dagli attentati di Pasqua, ma capace di risorgere e che chiede verità su quanto accaduto” ha ricordato il Presidente della Cei.
Nel contesto delle celebrazioni pasquali, in parte limitate per l’epidemia da coronavirus, l’arcidiocesi di Colombo ha organizzato speciali servizi commemorativi nelle chiese dal 17 al 21 aprile per ricordare le vittime degli attentati e stringere la comunità dei fedeli attorno alle loro famiglie. Anche, però, per per lanciare il messaggio che gli eventi drammatici della Pasqua 2019 non devono essere dimenticati o restare impuniti.
Nel suo ultimo rapporto, presentato il mese scorso davanti al Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti umani, l’inviato speciale ha segnalato alcuni progressi nella promozione della riconciliazione e dei diritti umani, ma che il governo srilankese ha sostanzialmente mancato di affrontare l’impunità diffusa e di smantellare quelle strutture che alimentano violazioni di diritti fondamentali e insicurezza, con il rischio di nuovi cicli di violenza. Se non la causa, sicuramente il ruolo delle autorità nelle crisi che drammaticamente pesano nella storia recente del Paese va sottolineato. La manipolazione delle divisioni e l’uso strumentale di interessi e necessità della varie comunità è purtroppo una costante, come pure l’utilizzo spesso condannato di apparati di sicurezza, militari, magistratura e gruppi estremisti a sostegno del potere di turno.
Da qui e dall’inazione davanti alle sofferenze patite anche dai cattolici come conseguenza delle stragi di un anno fa, la forte presa di posizione del cardinale Ranjit che si è detto pronto a lanciare proteste di piazza se il governo srilankese non troverà i responsabili dell’organizzazione degli attentati.
“Ci sono rapporti sul trasferimento in corso di funzionari di polizia incaricati delle indagini sugli attentati dinamitardi suicidi”, ha ricordato il porporato l’8 marzo durante un discorso al Santuario di Nostra Signora di Lanka.
“Le indagini sugli attacchi hanno rivelato che ‘personaggi altolocati’ dell’attuale governo sarebbero coinvolte e che nessuna azione è stata intrapresa contro di loro. Scenderemo in piazza con la nostra gente, indifferentemente che si tengano o meno le prossime elezioni (il 25 aprile)”. Il timore è che, come successo in passato, con l’avvicinarsi del voto, molto nel Paese venga gestito a fini elettorali e che si areni il lavoro della Commissione indipendente sulle responsabilità dei massacri voluta dal presidente Gothabaya Rajapakse su cui pesano già forti dubbi a livello internazionale e locale ma a cui il Cardinale ha confermato fiducia.