mercoledì 9 ottobre 2024
Il premier ungherese presenta all'Europarlamento la sua presidenza Ue, senza menzionare il conflitto in Ucraina. La risposta dura della presidente della Commissione Von der Leyen, che lascia l'Aula
Il premier ungherese Orbàn

Il premier ungherese Orbàn - ANSA

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Quando interviene dopo la presentazione da parte di Viktor Orbán del semestre di presidenza europea, Manfred Weber usa una parola. «Scioccato». Scioccato perché nel suo intervento di fronte alla plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo il premier magiaro ha parlato di competitività, migrazione, demografia, una «guerra sul suolo europeo», allargamento. Ma non ha mai citato, una sola volta, una parola: «Ucraina». Afferma che «l’Europa deve cambiare», che «dobbiamo affrontare una situazione molto più difficile del 2011» (l’epoca della prima presidenza ungherese Ue, lui era già premier). Naturalmente non poteva mancare la lotta alla migrazione irregolare, la sua ricetta sono «hotspot in Paesi terzi». «È questa l’unica soluzione, perché se i migranti arrivano nell’Ue non se andranno più». E questo, dice tra boati e fischi di proteste a sinistra, «porta ad antisemitismo, violenza contro le donne, omofobia». Quando finisce l’intervento, partono le ovazioni dell’estrema destra, dalla Sinistra intonano invece “O bella ciao”.

«Sono scioccato – dirà Weber, leader Ppe e presidente del gruppo all’Europarlamento –, non riesco a capire come lei possa ignorare gli ucraini che lottano per la libertà, come possa collaborare con l’aggressore». Un affondo preceduto subito prima da parte della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, in quello che forse è finora il più plateale “duello” tra quelli che ormai sono apertamente due nemici. La tedesca mette proprio l’Ucraina come la priorità numero uno. «Il mondo – tuona – ha assistito alle atrocità della guerra russa. Eppure, ci sono quelli che dicono che la guerra è colpa non dell’invasore, ma dell’invaso. Darebbero la colpa agli ungheresi per l’invasione sovietica del 1956?». Von der Leyen attacca pure su altri fronti. «Lei dice che l’Ungheria sta proteggendo le frontiere, ma come si concilia con il fatto che le sue autorità hanno liberato dal carcere trafficanti già condannati?». E ancora prende di punta la decisione di Budapest di facilitare i visti a cittadini russi senza controlli. «Questo – afferma Von der Leyen – è una minaccia alla sicurezza non solo per l’Ungheria, ma per tutti gli Stati membri». Cita la libertà di azione della polizia cinese sul suolo magiaro, «ciò non è difendere la sovranità europea». «La Commissione – si infurierà nella replica il premier ungherese - è la guardiana dei trattati, dovrebbe essere neutrale!». Von der Leyen, intanto, ha lasciato l’aula.

Orbán parla di Kiev nella replica. «Avevo lasciato da parte intenzionalmente l’Ucraina – dice il premier – ma qualsiasi confronto con l’Ungheria del 1956 è da respingere». Quanto alla pace, «stiamo effettivamente perdendo in Ucraina e voi vi comportate come se non sia così». Orbán chiede «un’attività diplomatica e una comunicazione diretta o indiretta» per schierarsi «al fianco del cessate il fuoco». E giustifica così la sua “missione di pace” a luglio da Vladimir Putin.

Peter Magyar, assurto ormai al più importante leader dell’opposizione ungherese contro Orbán e membro del Ppe, nel dibattito accusa di «alto tradimento» il premier e il suo capo consigliere Balasz Orbán (nessuna parentela) che ha detto che l’Ucraina avrebbe dovuto arrendersi subito per salvare vite e che così avrebbero dovuto fare gli ungheresi nel 1956.

Il dibattito è incandescente. «Mi pare – si infuria Orbán - che non siate interessati al programma della presidenza. Avete voluto organizzare una intifada politica e ripetete le menzogne della sinistra ungherese». «Lei non è benvenuto – tuona la copresidente verde Terry Reintke – questa è la casa della democrazia, non della corruzione, della propaganda, dell’autocrazia. Lei è servo di un brutale dittatore!». Si fa sentire per la Sinistra, Ilaria Salis: «Conosco l'Ungheria dai suoi luoghi più oscuri, dalla prigione» dice. «La presidenza dell'Ue all'Ungheria è altamente inappropriata. L'Ungheria sotto Orbán è diventata un regime illiberale e oligarchico, uno Stato etnico autoritario». Le piovono fischi da destra quando rifiuta di rispondere a una “blue card” (una domanda sul momento), mentre Orbàn nella sua replica finale la accusa di essere una "picchiatrice".

Critiche, sia pure molto più blande, anche da FdI: «Da amico, devo dirle anche ciò che non condividiamo nel suo progetto politico» afferma Nicola Procaccini, che è co-presidente dei Conservatori. Oltre a un «nemico interno» (il «furore progressista»), dice, «abbiamo anche un nemico esterno ben più pericoloso, di cui lei non sembra consapevole: l'alleanza tra Cina, Russia, Iran e Corea del Nord, il cosiddetto quartetto del caos, che è l’antitesi di qualunque patriota ungherese, europeo e occidentale».

Ovazioni e applausi incassa Orbán naturalmente dai Patrioti per l’Europa (cui aderisce la Lega e il Rassemblement National di Marine Le Pen). Con il capogruppo Jean-Paul Garraud, lepeniano, che definisce la presidenza ungherese «una grande opportunità per l'Europa e per noi tutti» dinanzi ai «discorsi guerrieri dei rappresentanti dell’Ue». Alla fine sono tre ore di uno dei dibattiti più infuocati che si ricordino a Strasburgo.

Il braccio di ferro tra Orbàn e Bruxelles a colpi di dossier

Dura da anni il braccio di ferro tra Bruxelles e Viktor Orbán, che sembra allontanarsi sempre di più dall’Ue. Sul piano politico, il premier magiaro sta esasperando i suoi partner europei con una politica di veto costante ovunque sia richiesta l’unanimità, ma soprattutto sul fronte dei fondi per l’Ucraina. E irrita i partner per gli accordi energetici che vanno in direzione diametralmente opposta al resto dell’Ue: mentre gli altri si stanno affrancando dal gas e dal petrolio russo, Orbán ha di recente rinnovato accordi per la fornitura di questi idrocarburi da Mosca. Per non parlare della “missione di pace” del premier ungherese da Vladimir Putin proprio all’inizio del semestre di presidenza ungherese, che ha fatto infuriare quasi tutte le altre capitali.

Sullo sfondo dei veti ungheresi c’è anche una ripicca legata ai soldi. Dal 2022 la Commissione Europea, in base alla nuova normativa che lega l’erogazione dei fondi comunitari al rispetto dello Stato di diritto, ha congelato vari fondi Ue per Budapest sia sul fronte di quelli ordinari (6,3 miliardi, il 55% del totale spettante all’Ungheria) sia quelli del Fondo di rilancio (10,4 miliardi previsti per Budapest) per gravi violazioni sul fronte dello Stato di diritto. Almeno, nel dicembre 2023 la Commissione ha “liberato” 10,2 miliardi dopo che Budapest ha ceduto sul fronte di importanti riforme per l’indipendenza della magistratura (molti sospettano che la decisione sia stata presa per “convincere” Budapest a dire sì all’avvio dei negoziati di adesione con Kiev).

A questo si aggiunge una multa da 200 milioni di euro comminata lo scorso giugno dalla Corte di giustizia Ue per il fatto che Budapest non rispetta le norme Ue rendendo di fatto impossibile ai migranti irregolari chiedere asilo, detenendoli inoltre in centri chiusi al confine. La Corte ha inoltre imposto un milione di euro al giorno a Budapest finché non avrà rispettato la sentenza. Un’altra procedura è in corso per il fatto che l’Ungheria impone una tassazione più elevata alle imprese di altri Stati Ue rispetto a quelle ungheresi, in piena violazione delle norme del mercato unico Ue. E ancora un’altra procedura è stata appena aperta per la “Legge sulla tutela della sovranità nazionale”, che istituisce un’authority dotata di vasti poteri discrezionali di indagine su Ong o individui sospettati di minacciare «la sovranità nazionale».

I rilievi dell’Ue sul fronte dello Stato di diritto sono seri, come si evince dall’ultimo rapporto in materia. Si parla di indebita pressione sui media e sui giornalisti, scarsa indipendenza dei pubblici ministeri, insufficiente lotta alla corruzione e appalti vinti per lo più da una cerchia ristretta di imprese vicine al premier. Un altro punto dolente è la proroga dello stato di “minaccia nazionale” che consente al governo in sostanza di governare a colpi di decreto.

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