Ha vinto con il voto dei latinos, dei neri, delle donne non sposate e dei milioni di operai che ha tenuto in fabbrica con i finanziamenti salva-auto. Se si vuole scegliere il momento nel primo mandato di Barack Obama che più gli è valso la rielezione, infatti, non è l’uccisione di Osama Benladen, bensì il lancio del pacchetto che ha lasciato in vita Ford, Chrysler, General Motors e il loro indotto in almeno tre Stati.Ma se i pilastri del partito democratico del ventunesimo secolo non sono nuovi, la campagna elettorale del 2012 del candidato dell’asinello ha avuto il merito di cavalcare con lungimiranza scientifica le loro tendenze. Dietro la seconda vittoria del figlio di un uomo keniota e di una donna bianca del Kansas ci sono infatti traiettorie demografiche che stanno rendendo la maggioranza degli americani sempre più multirazziale e sempre meno bianca, economicamente sempre più precaria e sempre meno disposta a proteggere i privilegi delle categorie fortunate. Un fenomeno di cui i repubblicani, partito sostenuto al 90 per cento dai bianchi e dalla classe media e medio alta, dovranno prendere nota per rimanere competitivi. Nel voto di ieri negli Stati Uniti non si è ripetuto dunque l’entusiasmo popolare per l’elezione storica di un uomo dalla pelle nera che inneggiava al «cambiamento». Si è materializzata invece la volontà di un compromesso pragmatico: gli americani non si aspettano che Obama cambi Washington, ma gli chiedono di manovrare in mezzo alle lotte politiche per estrarli dal pantano in cui li ha catapultati la recessione. Se nel 2008 Obama aveva incarnato la promessa di una nuova guida in un momento di tempesta, quest’anno ha sfruttato il timore di cambiare timoniere proprio quando le acque cominciano a calmarsi.Le note del discorso del trionfo di Obama, dopo l’abbraccio alla moglie che ha fatto il giro del mondo e prima dei palloncini e dei coriandoli bianchi rossi e blu, hanno riflettuto questa sobrietà. La reticenza del neo-confermato presidente di esultare nel suo trionfo non è in realtà stata dissimile dalle espressioni usate nel 2008, quando prese le redini di un Paese in bilico sul baratro della rovina. Ma quando ieri notte a Chicago Obama è tornato a parlare di «speranza», motto della sua prima elezione, è suonato meno idealista e più determinato di quattro anni fa. «Oggi, a scapito delle difficoltà che abbiamo attraversato, nonostante le frustrazioni di Washington, non sono mai stato così fiducioso sul futuro», ha detto fra gli applausi. Obama sa che questa volta la sua luna di miele con l’America sarà breve, forse inesistente. La sua vittoria ha margini più stretti rispetto a quattro anni fa: il commander in chief si è aggiudicato il 50% del voto popolare contro il 48 di Mitt Romney (2,7 milioni di consensi in più) e circa 303 (la Florida è ancora in bilico) grandi elettori. Il Congresso inoltre resta spaccato in due, con il Senato ai democratici e la Camera ai repubblicani con una maggioranza ancora più ampia, e con il presidente della Camera John Boehner che ha già annunciato di non voler fare passi indietro sulle tasse per i ricchi. E l’incarico che gli elettori hanno affidato al vincitore con il loro voto non è chiarissimo. Nel dibattito sul peso del governo nella vita della nazione, ha per ora vinto la fazione che vuole uno Stato più presente e interventista, soprattutto nelle politiche economiche e fiscali. Ma come si deve concretizzare questo “mandato”? In un aumento delle tasse? In maggiori spese per i programmi di aiuto per la classe media e bassa? Nella riduzione del bilancio della Difesa? Di certo Obama non userà i suoi ultimi quattro anni alla Casa Bianca solo per raddrizzare l’economia o riformare il sistema fiscale americano. Nell’agenda dell’ambizioso 44esimo presidente, deciso a fare storia non solo in virtù della barriera razziale infranta, c’è infatti anche una nuova legge sull’immigrazione, tesa anche a solidificare la presa democratica fra i latinos, e l’implementazione della sua riforma della sanità e delle nuove regole per la finanza, che sono diventate legge ma che languiscono sotto la pressione di Wall Street. È lavorando in modo bipartisan su queste misure che Obama dovrà cercare di riunificare un Paese diviso dove anche ieri più della metà delle persone pensava che Romney sarebbe stato più idoneo a gestire il portafoglio nazionale. Obama ha fino al 2016 per dimostrare che si sbagliano.