«Ho guardato in silenzio Notre-Dame. Con pena e con smarrimento. La guglia alta 45 metri non svetta più su Parigi. C’è un vuoto che sconvolge. Che fa male. Ma la cattedrale è ancora lì. Con le sue fondamenta e con le sue mura... Sono i pilastri della nostra cultura e della nostra storia. E continueranno a esserlo». Enrico Letta era a Barcellona quando Notre-Dame bruciava. È tornato proprio ieri nella “sua” Parigi. Ha visto i francesi piangere. Il mondo commuoversi. «Fatti così ci ricordano quanto siamo fragili, vulnerabili », ripete sottovoce l’ex presidente del Consiglio.
Che cos’è per i francesi Notre-Dame?
È la casa. È il cuore. È l’anima. È così visibile, così centrale, così imponente... Un simbolo. La Torre Eiffel non è mai riuscita a superarla.
E per lei?
È il luogo che più di ogni altro ha reso Parigi capitale europea. Per me è l’unione tra la religione e la politica.
Non è anche il simbolo di un’Europa che non riesce a fare le cose bene? Non è anche la tragedia dell’incuria?
Pensavo alla notte del 25 agosto del 1944. Ai tedeschi che abbandonavano Parigi e a quell’ordine di far saltare in aria la città, la sua storia, i suoi monumenti... Partendo proprio dalla cattedrale.
Il comandante tedesco quell’ordine però non lo eseguì.
È così. Notre-Dame è sopravvissuta ai nazisti e poi è bruciata proprio per l’incuria. Un incendio che pare causato da qualche piccola negligenza. Forse come la Fenice di Venezia. Forse come il Ponte di Genova. Certi vizi sono sempre vivi. Impegnati a fare cose straordinarie facciamo i conti con una drammatica incapacità a gestire la normalità. Riusciamo a fare grattacieli di due- cento piani e poi cadiamo sulle cose semplici, ordinarie. Aveva ragione Beniamino Andreatta: si è persa l’attenzione al dettaglio.
Fu Andreatta a spingerla a scrivere uno dei suoi primi libri: “Costruire una cattedrale”.
Mi diceva: «Dobbiamo riprendere le due caratteristiche di chi nel Medioevo costruiva Cattedrali. La forza di un progetto di lungo periodo e la maniacale attenzione ai particolari ». È proprio così: le cattedrali erano straordinarie perché la cura usata nel costruire la statua che dominava la facciata e che venivano guardate da migliaia e migliaia di uomini e donne era uguale alla cura usata per il capitello nascosto che – come diceva Andreatta – vedevano solo i piccioni.
Brucia Notre-Dame e brucia l’Europa?
Brucia la guglia della cattedrale, non Notre-Dame. È così: l’Europa c’è. Con la solidità di un impianto di regole che uniscono. Con la politica monetaria che ci ha permesso di reggere l’urto di una crisi economica terribile. Penso al lavoro di Mario Draghi: ha salvato l’euro e l’Europa con regole e poteri europei.
Ma la guglia è andata in fiamme, si è sgretolata...
La guglia è il sogno. E dell’Europa sta venendo meno proprio la capacità di far sognare. Viene vista quasi come una necessità, quasi come un male minore. Si pensa a Brexit e si dice «questa Europa non va, ma uscirne è peggio».
Crede che questo rogo possa essere l’occasione per ripartire? Per ritrovare una coesione messa a dura prova da questa drammatica crisi economica?
Mi ha colpito ed emozionato l’unità che si accavallava alla solidarietà. La voglia di ricostruire così corale, così contagiosa. La gara di solidarietà che accendeva il mondo. Le donazioni. I messaggi. Tutti avremmo voluto che non accadesse, ma ora quel rogo può essere l’occasione per riflettere e per reinventare l’Europa proprio come una grande cattedrale. Una casa per tutti. Per i principi e per i poveri. Per i vescovi e per gli atei. E magari per unire le grandi religioni. Ho letto le parole del grande Imam di al-Azhar e il suo calore verso i fratelli francesi. E il messaggio del ministro degli esteri iraniano per la Francia e per tutti i cattolici. Le fiamme hanno bruciato la guglia. Ma la sfida è ricostruirla su fondamenta che sono ancora solide.