domenica 19 marzo 2023
Le bande arruolano di continuo bimbi e adolescenti per rimpiazzare le perdite. La lotta di suor Paesie: «Porto in classe chi non è mai andato perché troppo povero, è l’ultimo rifugio»
Un rifugio, alla periferia della capitale Port-au-Prince, dove sono ospitati più di 1.200 abitanti (in prevalenza donne e bimbi) in fuga dalle violenze delle gang

Un rifugio, alla periferia della capitale Port-au-Prince, dove sono ospitati più di 1.200 abitanti (in prevalenza donne e bimbi) in fuga dalle violenze delle gang - Ansa

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Non è soltanto uno dei “pezzi” più cruenti della Terza guerra mondiale in cui siamo immersi. Haiti è “caso-scuola” del tipo di conflitti che caratterizzano la contemporaneità. «Nuove guerre», le ha definite la politologa Mary Kaldor. Una forma di violenza organizzata cresciuta nelle pieghe delle contraddizioni nell’attuale fase di globalizzazione e nei fallimenti dell’unipolarismo neoliberista. In essa si fanno labili i confini tra competizione di gruppi politici per la conquista del potere, criminalità e violazione su larga scala dei diritti umani. L’obiettivo dei vari attori è la conquista di pezzi di territorio da saccheggiare. Accade ad Haiti come in buona parte dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina. Gli impatti, però, non restano confinati nel Sud del mondo. Dal business delle nuove guerre, traggono risorse attori esterni, statali e no, in grado di destabilizzare l’ordine globale. La tragedia haitiana, dunque, è cartina di tornasole e monito per l’evoluzione dello scenario bellico mondiale. Per questo, vederla, analizzarla e raccontarla non è solo dovere giornalistico e umano: è un esercizio fondamentale di lettura del presente.

I “soldati” di G9 si sono presentati all’uscio di Melanie (il nome, come quelli di tutte le vittime, non è quello vero per ragion di sicurezza) e le hanno intimato di andare via. Da quel giorno di fine febbraio, la casupola sarebbe diventata una base operativa della gang, guidata dal potente Jimmy Chemizier alias Barbecue. A Simon, sobborgo di Port-au-Prince, la sua parola è legge. Melanie, dunque, era pronta a obbedire senza discutere e ad aggiungersi al fiume di oltre 155mila sfollati delle bande che vagano per la capitale haitiana. Quasi un terzo di loro si ammassa negli interstizi urbani – piazze, sterrati, edifici diroccati – e cerca di sopravvivere sotto un telo di plastica, senza acqua, luce servizi, igienici. Mentre la donna usciva, però, circondata dalle figlie di 14, 18 e 22 anni, il commando le ha sbarrato il passo.

«Loro restano qui», ha detto capo, indicando le ragazzine con il fucile. A quel punto, Melanie ha lottato, ha pianto, ha supplicato. Invano. Insieme alla baracca, anche le ragazzine erano entrate tra le proprietà della banda. La mamma, però, non si è arresa. Ha bussato a tutte le porte sgangherate di Simon fino a quando, all’inizio di questa settimana, non ha convinto un vicino, amico di vecchia data di un pezzo grosso di G9, ad aiutarla. È stato quest’ultimo a parlare con gli occupanti, poco più che adolescenti, e a farsi restituire le giovani. «Erano distrutte. Ogni giorno, erano state violentate dai sei miliziani. Ogni giorno», ripete suor Paesie, al secolo Claire Joelle Phillipe, nata nella Lorena francese e residente ad Haiti dal 1999. Senza soldi né rifugio, Melanie e le figlie si sono rivolte a lei, certe che le avrebbe aiutate. E così è stato. «Ho dato loro un po’ di denaro per affittare una casetta lontano da Simon e da G9», dice la religiosa, che nel 2017 ha fondato Famiglia Kizito. La congregazione, formata da cinque consorelle, si dedica all’assistenza e all’educazione dell’infanzia. Nel conflitto senza inizio ufficiale e fine imminente di cui è ostaggio il Paese, bimbi e, sempre più, bambine e adolescenti sono diventati “bottino” nella guerra fra le oltre duecento bande che si contendono indisturbate brandelli di territorio.

«È il caso più simile alla Somalia che conosca», sostiene Sergio Gatto, rappresentante dell’Unione Europea nell’isola. Le gang sono un male cronico. Da squadroni della morte durante la dittatura di Papa e Baby Doc, con il ritorno della democrazia negli anni Novanta, sono diventate strumento di coercizione elettorale nelle mani dei partiti. Nell’era di Michel Martelly, tra il 2011 e il 2016 – sotto sanzioni da parte del Canada proprio per aver finanziato le bande – c’è stata, una crescita esponenziale per numero e potenza, fino all’attuale “somalizzazione”. La gang, ormai unica autorità reale, si espandono in un susseguirsi di scontri all’ultimo sangue con i rivali. La richiesta di forze nuove per rimpiazzare le perdite è continua. I minori sono carne da cannone a buon mercato. La gran parte ha perso uno o due genitori nel conflitto.

«Solo il 5 per cento li ha entrambi. Il 60 per cento ha solo la madre perché il padre è morto o li ha abbandonati per il gruppo armato. Nelle baraccopoli, poi, i bambini stanno per strada tutto il giorno mentre i familiari sono impegnati a racimolare qualcosa da mangiare», aggiunge suor Paesie. Con la guerra, la fame ha raggiunto livelli inediti perfino per il Paese più povero dell’Occidente. Come ha rivelato del Coordinamento Onu per gli affari umanitari (Ocha), questa settimana nell’isola per una missione urgente, nel 2023 almeno 5,2 milioni di persone avranno necessità di assistenza per sopravvivere, il 55 per cento sono bambini. Soli e affamati questi ultimi sono “sensibili” al richiamo delle bande.

«I più piccoli sono arruolati come “vedette” o tuttofare. Jackson a 9 anni lavorava già per la gang di Cité Okay prima che un’amica italiana, suor Luisa Dell’Orto, lo portasse da me», dice Paesie mentre indica un ragazzino dagli occhi vispi e le mani irrequiete. I ragazzi più grandi sono impiegati come combattenti, a cui per aumentare il coraggio vengono somministrate ingenti dosi di una miscela ottenuta mescolando la bibita gasata “Becool” con profumo. Le ragazzine vengono prese come schiave domestiche e sessuali. Nell’arsenale bellico delle bande, gli stupri di massa, come ha confermato dall’Onu, sono armi convenzionali per sottomettere la popolazione. Non esistono cifre delle violenze sessuali perché la gran parte è troppo terrorizzata per denunciare ma fonti umanitarie parlano di un incremento del 300 per cento in un anno. «Sono sempre più i genitori o i parenti che ci chiedono di prendere un’adolescente per salvarla dalla gang», dice la religiosa che non si limita a dare asilo ai fuggiaschi. La Famiglia Kizito ha elaborato una strategia a lungo termine per sottrarre ai gruppi armati la «refurtiva umana».

Suor Paesie la riassume in una frase: mandare i bambini a scuola. Non è semplice. Nell’isola, oltre l’80 per cento degli istituti è privato, con tasse che variano dai cento ai mille dollari all’anno. Alla retta poi si sommano i costi dei libri, dei quaderni, delle uniformi. Già di norma, dunque, quasi la metà dei minori non frequenta nemmeno le elementari. Il conflitto ora ne ha espulso un altro milione dai banchi. Secondo l’Unicef, gli attacchi alle strutture educative sono cresciuti di nove volte nell’ultimo anno. La violenza ha fatto slittare l’inizio delle lezioni da settembre a gennaio. Ma un quarto delle strutture non ha ancora riaperto o ha richiuso a causa degli scontri. «Noi non ci siamo mai fermati», dice suor Paesie. Eppure le sue sei scuole, dove studiano 1.300 ragazzi tra gli 8 e i 18 anni, sono sulle linee del fronte di Martissaint e Cité Soleil.

«Ho iniziato nel 2017 a Village de Dieu, nel cuore di Martissant, appena qualche mese prima che la gang di Johnson Alexandre alias Izo sferrasse la propria offensiva. Siamo andati avanti anche mentre infuriava la battaglia. Tutti i nostri insegnanti sono della zona, dunque riescono a garantire la presenza. Qualcuno pensa che sia pericoloso per insegnanti e alunni. Io penso che corrano maggiori rischi per strada. Noi prendiamo i ragazzini mai entrati in una classe perché troppo poveri. Proprio quelli che le bande cercano di arruolare. La scuola offre loro uno scudo. Lo capiscono le stesse gang. «Non sono per noi», dicono quando li vedono in uniforme. Per questo andiamo avanti, sono gli stessi piccoli a chiedercelo». Il desiderio di studiare è tale che i 55 baby detenuti di Les Cayes, nel sud del Paese, si sono inventati una scuola fai da te. «Da ottobre, con l’aggravarsi della crisi, ai minori incarcerati, raddoppiati in poco tempo, è stato vietato di lasciare le celle, sempre più affollate – racconta Eleonora Cormaci, responsabile di Terre des hommes nel Paese –. Per passare il tempo, chi sapeva leggere si è messo a insegnare ai compagni analfabeti. Prima lo hanno fatto spontaneamente. Poi, con il via libera delle autorità, li abbiamo aiutati a strutturare veri e propri corsi suddivisi in tre gruppi, dando anche lavagne e materiale».

«Prima del carcere non ero mai potuto andare a scuola. Ora finalmente posso scrivere a mia madre», dice Roger mentre mostra con una punta di orgoglio il foglio con la sua prima parola, «bonjour». «Spero di restare qui a lungo per imparare di più». Dall’inizio del mese, però, le lezioni sono sospese: dovevano svolgersi al mattino per sfruttare la luce naturale dato che le celle non hanno elettricità. L’unico pasto, però, viene distribuito nel pomeriggio. A stomaco vuoto, i ragazzini non riescono a concentrarsi. Terre des hommes sta cercando in ogni modo di trovare del cibo aggiuntivo. Ad Haiti qualche sacco di riso può fare la differenza tra vita, morte e morte in vita.

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