martedì 5 novembre 2024
A Central City South le case con i cortili polverosi cedono il posto ai caravan. Proprio qui ci sono "sacche" di voti contesi fino all'ultimo minuto. «Siamo un'isola dimenticata»
Una senzatetto a Phoenix in Arizona

Una senzatetto a Phoenix in Arizona - Ansa

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I cittadini americani sceglieranno oggi il successore di Joe Biden alla presidenza, andando alle urne per esprimersi tra la democratica Kamala Harris e il repubblicano Donald Trump. Per vincere sono necessari 270 dei 538 voti del Collegio elettorale e le elezioni di solito si decidono negli “Stati in bilico”. L’orario di chiusura dei seggi si differenzia nei 50 Stati perché gli Usa hanno 6 fusi orari. I primi a chiudere a mezzanotte (ora italiana) saranno Indiana e Kentucky, l’ultimo sarà l’Alaska alle 6 di domattina. Oltre 75 milioni di elettori hanno già votato, tra voti anticipati di persona e schede elettorali inviate per posta. Si voterà oggi anche per il rinnovo totale della Camera e per un terzo del Senato: possibile un doppio ribaltone, con il Senato che torna ai repubblicani e la Camera che passa ai dem, anche se il secondo scenario è più incerto. Americani alle urne anche, in 41 Stati, per 146 referendum. Il dossier più importante è l'aborto, uno dei temi caldi della campagna elettorale, ma si vota anche per il salario minimo e fondi alla polizia.

È facile arrivarci per caso – dal centro di Phoenix è una passeggiata di un chilometro – o passarci per andare allo stadio Chase field a vedere il battitore dei Diamondbacks correre attorno alle quattro basi. Ma ci si accorge subito che le strade Central City South non hanno niente a che vedere con i ristoranti messicani del centro e con le case eleganti della periferia di una metropoli che vanta meno del 3% di disoccupazione. Il Central Village è il quartiere più antico della capitale dell’Arizona, è un’area ex industriale, e una delle poche dove le minoranze a basso reddito possono permettersi di vivere, soprattutto afroamericani e Latinos fermatisi qui, a 250 chilometri dal confine con il Messico. Le case con i cortili polverosi e pieni di ciarpame ogni tre o quattro isolati cedono il posto a caravan e a qualche tenda. Si incontrano persone di tutte le età trascinare tutto quello che possiedono in carrelli stracolmi. Quello che non si vede sono negozi, supermercati, farmacie. Central City South, dove il tasso di criminalità è 5 volte la media nazionale, è quello che negli Stati Uniti si chiama un “food desert”, dove gli unici commercianti a fornire alimentari sono le piccole bodegas d’angolo che vendono cibo in scatola.

I marciapiedi, però, sembrano nuovi, e le fermate degli autobus sono moderne e ombreggiate. Due conquiste recenti. «Siamo un’isola dimenticata, in lotta continua con il Comune e lo Stato per ottenere ciò che ci spetta», spiega Eva Olivas, direttrice della Phoenix Revitalization Corporation, un’associazione senza scopo di lucro. Per le strade non si vedono neanche i cartelloni elettorali che abbondano nel resto della città. L’unico segno che il voto è imminente sono le squadre delle due campagne o di gruppi indipendenti che bussano alle porte per «get out the vote», convincere i residenti a recarsi alle urne, portandoceli se necessario. Perché a Central City South, come in tutte le sacche di povertà del Paese, di solito non si vota. Un rapporto di Lake Research Partners dimostra che la partecipazione agli elettori poveri è di 12 punti percentuali inferiore a quella dei quartieri ad alto reddito.

Solo in Arizona, Stato con 7,4 milioni di abitanti, più di un milione di elettori poveri probabilmente non voteranno nel 2024. Una proporzione che fa dei poveri americani un ottavo Statochiave, un enorme potenziale che i candidati trascurano lungo tutta la campagna elettorale per ricordarsene nelle ultime due settimane, se, come quest’anno, diventa fondamentale sfruttare ogni possibile vantaggio. «Sentiamo molto spesso i candidati parlare di cosa vorranno fare per la classe media. Molto raramente dicono: “Questo è quello che voglio fare per i poveri”», spiega Robert Greenstein, fondatore del gruppo non-profit Center on Policy Priorities.

Per questo, dall’inizio dell'anno, la Poor People’s Campaign, in collaborazione con vari gruppi religiosi, ha lanciato la missione di mobilitare 30 milioni di elettori a basso reddito, con l’obiettivo di risvegliare quello che l’associazione chiama il “gigante addormentato” della politica americana. Non è un’esagerazione, se si pensa che, nelle ultime presidenziali, solo 43.000 voti negli Stati indecisi hanno fatto la differenza nella scelta del capo della Casa Bianca.

Solo in Arizona, nelle ultime due settimane il gruppo ha inviato 8,7 milioni di messaggi a elettori identificati come “refrattari”, che la Poor People’s Campaign descrive in termini biblici come “gli ultimi”.

Pur non essendosi mai esplicitamente rivolti ai poveri, sia Donald Trump che Kamala Harris hanno cercato di attingere a questo importante serbatoio di preferenze. Harris ha denunciato i tagli all’assistenza pubblica proposti dalla destra Usa, delineando invece iniziative per investire in alloggi a prezzi accessibili e assistenza all'infanzia, nonché per espandere la mutua Medicare. Ha anche appoggiato il ripristino del credito d’imposta sui figli per le famiglie a basso e medio reddito, un’idea rilanciata anche dal candidato repubblicano alla vicepresidenza, J.D. Vance.

Trump, da parte sua, ha fatto leva sulla paura dell’arrivo di nuovi immigrati che assorbano preziose risorse pubbliche, togliendone ai cittadini americani che ne hanno bisogno. Entrambe le strategie hanno fatto leva su alcuni residenti di Central City South, che dicono di preferire uno o l’altra. Ma a dominare nel quartiere è la disillusione. «C’è un problema di credibilità, ed è particolarmente acuto per il partito democratico – afferma Greenstein –. Questi elettori hanno ascoltato i democratici in passato e sono rimasti delusi dai risultati. Il che li ha spinti ancora di più a non esprimersi».

Circa 115 milioni di americani vivono nel bisogno o al limite della povertà, un terzo della popolazione. E, nel 2020, solo il 66% degli aventi diritto si è recato alle urne. I due numeri non sono del tutto sovrapponibili, certo, ma le proporzioni non sono neppure casuali. Ma, secondo la Poor People’s Campaign, la percentuale di poveri che ha votato è aumentata notevolmente nel 2022. «Siamo in giro in massa per fare attività di sensibilizzazione – spiega Evans, volontario del gruppo a Phoenix –. Per spiegare che votare è un atto di sfida contro i sistemi economici che hanno messo a tacere i meno abbienti».

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