Il fuoco si leva dall'aeroporto di Khartum - Reuters
Non tutti i circa duecento italiani presenti in Sudan al momento dell’esplosione del conflitto sono rientrati in patria. Alcune decine, circa una cinquantina, in gran parte operatori umanitari e missionari, sono rimasti nel Paese in guerra. Almeno per il momento. Il salesiano Andrea Comino è uno di loro. «Una bomba è caduta nel nostro laboratorio di Khartum, fortunatamente non c’era nessuno», spiega il religioso impegnato, insieme ai confratelli, nella formazione. Attraverso una rete di scuole, diffuse in varie partti della nazione, i salesiano garantiscono formazione, soprattutto tecnica, dei giovani in modo che possano trovare un lavoro.
Hanno scelto di non partire anche i sette comboniani italiani. L’istituto missionario fondato da Daniele Comboni ha creato sei comunità dove sono impegnati una trentina di religiosi. L’unico ad essere andato via, per ragioni mediche, è un anziano sacerdote spagnolo. «Non abbandoniamo nessuno, siamo in Sudan da 150 anni, da quando padre Comboni è vissuto e morto qui, dove nel corso di decenni abbiamo sviluppato attività cristiane e anche scolastiche a cui partecipa un migliaio di persone, in maggioranza islamici con cui abbiamo un buon rapporto di dialogo. Siamo qui per evangelizzare non per fare proseliti – spiegano –. I missionari italiani sono tra i più anziani, alcuni vivono qui da cinquant’anni».
Solo nei progetti di Emergency a Khartum, Sud Darfur e Port Sudan lavorano 38 connazionali, ancora al loro posto. Certo, molto dipenderà dall’evolversi della situazione e dalla possibilità di continuare a svolgere l’attività di assistenza sanitaria gratuita alla popolazione. L’Ong fondata da Gino Strada gestisce l’ospedale di cardiochirurgia Salaam nella capitale – diventato punto di riferimento nel Continente – e tre centri pediatrici. Dal 15 aprile, con l’inizio degli scontri, l’organizzazione ha dovuto rimodulare la propria azione. E, ieri, ha lanciato un appello a tutte le fazioni in lotta: «Vi chiediamo di rispettare le nostre strutture sanitarie. I nostri ospedali sono luoghi neutrali, dove curiamo chiunque ne abbia bisogno, senza discriminazioni».
Al lavoro anche il team diMedici senza frontiere (Msf), italiani inclusi. Nella clinica di El Fasher, nel nord del Darfur, l’organizzazione-Premio Nobel ha curato oltre duecento feriti, nonostante le enormi difficoltà. Le sedi di Nyala, nel Darfur meridionale, sono state saccheggiate. Ovunque, poi, le scorte – dai farmaci alle sacche di sangue al carburante – stanno terminando e le strutture della capitale non riescono a inviare rifornimenti per la difficoltà di accedere ai magazzini