Lo spazio nel terreno di Nossa Senhora Aparecida di Manaus è esaurito: in arrivo 22mila loculi - Ansa
«Ieri, durante il mio turno, sono morte due persone. A una, ho fatto un massaggio cardiaco infinito. Ho premuto e premuto con tutta la forza che avevo, non volevo che se ne andasse. Alla fine mi facevano male la schiena e le braccia. Ma non ce l’ha fatta. Non avevo mai visto niente del genere. C’erano pazienti dappertutto: fuori, ammassati all’entrata, negli anditi, perfino nelle stanze dove sta il personale. Tanti erano gravi. Avremmo dovuto trasferirli in terapia intensiva, ma non c’era posto. È orribile». Maria de Nazaré Ribeiro è tornata a casa all’alba dopo una lunga notte al pronto soccorso del quartiere Coroado di Manaus, dove lavora come infermiera. «Infermiera vuol dire curare. Ma ormai non siamo in grado di curare nessuno. Mancano personale, medicine, dispositivi, soprattutto respiratori».
Nove mesi dopo, la capitale dell’Amazzonia brasiliana è di nuovo allo stremo. La cosiddetta seconda ondata – che dal mese scorso scuote il Gigante del Sud, dove i morti sono ormai oltre 200mila e i casi oltre 8 milioni – qui è diventata uno tsunami. Vari fattori hanno contribuito. A novembre c’è stata la campagna per le municipali, in cui sono stati sospesi i comizi ma non gli eventi. Poi, sono arrivate le grandi riunioni di Natale e Capodanno. Nel mezzo, c’è stato un calo generale della vigilanza, una volta superato il momento peggiore. Questo mix esplosivo ha fatto aumentare i contagi nella città di 2,3 milioni di abitanti, a quota 207mila. E con essi sono cresciuti i ricoveri, più 163 per cento in due settimane. Dal 31 dicembre, ci sono stati, in media, cento arrivi al giorno in corsia. Domenica sono stati 159. Poi mercoledì il record: 221. Numeri alti che, però, diventano catastrofici per Manaus, con 531 letti in terapia intensiva per tutti i 4 milioni di persone dello Stato di Amazonas. Un tasso di 13 ogni centomila cittadini, il 40 per cento in meno rispetto al resto del Brasile.
Già in condizioni normali, il panorama sanitario della regione è preoccupante. Con la pandemia, il sistema è semplicemente collassato. Proprio come ad aprile, perché nel frattempo ben poco è stato fatto per aumentare la capacità clinica. Quando, nell’inerzia del governo centrale di Jair Bolsonaro, le autorità locali hanno dichiarato lockdown per i successivi sei mesi, il 5 gennaio, le cliniche private avevano già raggiunto il livello di capienza massima. Nei quattro ospedali pubblici, il tasso di occupazione sfiora il 94 per cento. Le ambulanze fanno la spola tra una struttura e l’altra per ore prima di riu- scire a scaricare un malato. Parallelamente sono cresciuti i morti. Quelli ufficiali – per cui è stato rilevato con certezza il coronavirus – sono 5.500 dall’inizio della pandemia. Dato il bassissimo numero di test, però, sono le sepolture – schizzate dell’85 per cento col nuovo anno – l’indicatore più attendibile.
Tra il primo e il 7 gennaio ne sono state registrate 585, 83 al giorno. Giovedì sono state 112, quasi quanto il record del 24 aprile. Ancor più dei numeri, inoltre, a descrivere la situazione sono i container frigo montati in tutta fretta accanto alle camere mortuarie degli ospedali, stracolme di cadaveri. O le file di bare fuori dal cimitero di Nossa Senhora Aparecida. Il Comune ha dovuto annunciare la costruzione di 22mila loculi aggiuntivi: per terra non c’è ormai più spazio. «È peggio della prima ondata – afferma José Alcimar Souza de Araújo, vice-presidente della Caritas di Manaus –. Ora è impossibile ricevere assistenza. Chi ha qualche risorsa prova a curarsi a casa, comprando le medicine. I più poveri, oltre il 60 per cento degli abitanti, però, non possono farlo». Almeno l’isolamento e la massiccia campagna di sensibilizzazione di Caritas ha evitato la propagazione massiccia del nuovo contagio fra gli indigeni. Nella cinquantina di favelas urbane – dove gli operatori della Chiesa distribuiscono quanto possono –, però, la situazione è drammatica.
«Ancora una volta sono i poveri le principali vittime. Per fortuna, proprio quanti hanno meno stanno dimostrando grande solidarietà. Il momento è davvero duro. Ogni giorno, vedo persone vicine ammalarsi: ministri della parola, dell’Eucarestia, catechisti. Tre sacerdoti sono ricoverati, tre sono a casa», racconta l’arcivescovo, dom Leonardo Ulrich Steiner. La volontà di contribuire i cittadini a prendere coscienza della gravità della crisi, ha spinto il pastore a sospendere le Messe fino al 22 gennaio. «Le trasmetteremo online, mentre le chiese resteranno aperte per la preghiera personale. E noi siamo e continueremo ed essere accanto al popolo, in particolare agli ultimi».