Due indizi fanno una prova, diceva Agatha Christie. Su una nuova luna di miele tra Washington e Caracas come effetto collaterale del conflitto ucraino gli indizi sono almeno cinque. A marzo, all’indomani dell’invasione da parte di Mosca, c’è stato il primo incontro tra funzionari statunitensi d’alto livello e il governo venezuelano per discutere delle sanzioni imposte dagli Usa dal 2019. Tre mesi dopo è stato il turno dell’ambasciatore, James Story, che ha avuto un colloquio privato con il presidente e – fino a qualche tempo fa – acerrimo nemico della Casa Bianca, Nicolás Maduro. A ottobre, le autorità statunitensi hanno scambiato i due nipoti di Cilia Flores, moglie di Maduro, condannati a 18 anni per traffico di eroina, con sette americani detenuti a Caracas. Sabato scorso, il pezzo più importante del puzzle: il Tesoro di Washington ha annunciato il “Chevron deal”.
Il colosso petrolifero è stato autorizzato a riprendere le produzione nella nazione latinoamericana che conta le seconde maggiori riserve di greggio al mondo. La licenza – hanno precisato dagli Stati Uniti – è «limitata» e di «carattere temporaneo»: sei mesi al termine dei quali potrà essere revocata. Soprattutto, fonti vicine all’Amministrazione democratica, hanno messo in chiaro che il ritorno di Chevron in Venezuela non ha niente a che vedere con la crisi energetica globale innescata dalla guerra in atto a Kiev. Proprio questa “excusatio non petita” finisce per rappresentare, però, il quarto indizio. Ufficialmente, il “Chevron deal” è conseguenza della ripresa dei colloqui tra Maduro e l’opposizione, avvenuta in Messico, sempre sabato. Immediatamente, le due parti hanno deciso di convogliare i finanziamenti congelati all’estero – tra i tre e i cinque miliardi di dollari – su un fondo umanitario amministrato congiuntamente, sotto l’egida delle Nazioni Unite. In realtà, però, il nuovo round negoziale sembra più l’effetto che la causa dell’ammorbidimento di Washigton. Il greggio mondiale inizia a scarseggiare specie dopo la decisione dell’Opec di ridurre la produzione di circa il 2 per cento. Anche negli Usa, dunque, i prezzi di benzina e gasolio cominciano a crescere. Da qui la caccia di Joe Biden a fornitori alternativi, inclusi quelli politicamente problematici, dal saudita Mohammed bin Salman allo stesso Maduro. È la real politik dell’oro nero a stelle e a strisce. Grazie al rientro di Chevron e alla riattivazione dei suoi quattro impianti, l’estrazione potrebbe crescere di 100mila barili al giorno nel giro di due anni.
La concessione, inoltre, costituisce un precedente che a breve – secondo fonti dell’Amministrazione – potrebbe essere replicato con altre multinazionali. Biden ha fretta: a gennaio si insedierà la nuova Camera a maggioranza repubblicana, poco incline a fare affari con il chavismo, anche se una parte del fronte conservatore, di recente, ha aperto alla possibilità come un modo per contenere l’influenza russa in Venezuela.
L’orizzonte di Maduro è più dilatato: l’obiettivo è allentare l’emergenza in atto prima delle presidenziali del 2024, a cui è deciso a riprensentarsi. Le sanzioni Usa costituiscono un ostacolo alla ripresa economica. Il leader chavista sa che per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica il cambio di rotta deve dare alla Casa Bianca un segnale di buona volontà. Come la ripresa delle trattative, appunto. Nell’intreccio tra politica e maquillage, petrolio e crisi energetica, non è escluso, però, che queste potrebbero andare a buon fine anche grazie alla mediazione della Colombia di Gustavo Petro.