venerdì 23 agosto 2024
Il partito democratico Usa straripa di gioia. Almeno a parole. È una strategia contro il cinismo di Donald Tramp. L'efficacia è tutta da vedere
Un'immagina gioiosa di Kamala Harris e il marito

Un'immagina gioiosa di Kamala Harris e il marito - ANSA

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Il partito democratico Usa straripa di gioia. Almeno a parole. Dal “guerriera gioiosa” uscito dalla bocca del “second gentleman” Doug Emhoff a «la presidente della gioia» coniato da Bill Clinton, passando per il «scegliamo la gioia» di Oprah Winfrey, il binomio Kamala Harris e gioia è stato imprescindibile per ogni oratore salito sul palco di Chicago.

È, naturalmente, una strategia calcolata. «L’atteggiamento gioioso della campagna di Harris mette in evidenza un netto contrasto con il cinismo di Donald Trump e scommette sul fatto che gli americani siano pronti a ricevere un messaggio molto più promettente», spiega dal parterre della convention lo stratega dem Robert Shrum. Ma si può arrivare alla presidenza puntando tutto su un sentimento? Un po’ di buon umore non può nuocere e di certo il sorriso di Harris buca gli schermi dopo il broncio di Trump e la serietà di Joe Biden.

Ma il dubbio che sia una strategia vincente è legittimo. «Sebbene i democratici sostengano che questo sia un modo intelligente di contrastare la retorica negativa della campagna di Trump, può alienare gli elettori che sono veramente pessimisti o preoccupati e che hanno buone ragioni di esserlo», dice il sondaggista Matt McDermott. Quando si fa fatica ad arrivare a fine mese, un proprio caro è ammalato o si lavora dodici ore al giorno, sentirsi dire di aprirsi alla gioia può sembrare una presa in giro. I democratici fanno notare che già Barack Obama aveva centrato il suo messaggio su concetti positivi e astratti come «speranza e cambiamento». Ma un candidato che promette di cambiare le cose che non vanno ed è convinto di poterlo fare (“Yes, we can”) trasmette un’immagine molto più attiva e intraprendente di uno che, in modo vago, assicura quattro anni di gioia. Ed è forse questo il punto debole di una campagna altrimenti intelligente nella sua scelta dei temi di unità e libertà e nel suo orientamento verso il futuro. Perché agli americani (probabilmente non solo a loro) piacciono leader forti, determinati e capaci di dominare i loro avversari politici. Meglio un piglio deciso che un sorriso, allora.

Meglio un pugno alzato (Trump l’ha capito bene) che un abbraccio. Non che gli elettori Usa non amino i buoni sentimenti, intendiamoci. O che cerchino un dittatore. Come illustra il docente di scienze politiche di Berkeley M. Steven Fish, «nella storia americana, i candidati che sono visti come il leader più forte raramente perdono». Per forte qui non si intende offensivo, bellicoso o arrogante, ma “dominante”, nel senso di voler creare opinioni piuttosto che seguire i sondaggi, prendere grossi rischi e non temere di usare un linguaggio provocatorio e persino trasgressivo.

A tutti piace vincere, ancora di più dopo una serie di sconfitte. «Le famiglie americane della classe media in difficoltà e quelle della classe operaia non hanno bisogno di un presidente che ridia loro il buonumore – continua Fish –, ma di un leader che ha fiducia nella loro capacità di essere autosufficienti e che lotti con loro e per loro, anche se deve sporcarsi le mani». Trump ha fatto suo questo principio, l’ha cavalcato fino alla Casa Bianca e conta di farlo ancora. L’idea invece può apparire ostica ai liberal della sinistra, più intrisi di un’ideologia di diritti e libertà che di una di forza. Eppure nella storia dem non sono mancate figure dominanti e assertive, da Franklin Delano Roosevelt a Martin Luther King. Persino il centrista e intellettuale Obama ha conquistato gli americani con un tono che trasmetteva profonda fiducia in sé stesso e nei suoi concittadini.

I progressisti Usa del 2024 invece, probabilmente in reazione a Trump, sono profondamente diffidenti nei confronti di leader dominanti, mettendo in primo piano la collaborazione e la costruzione del consenso piuttosto che quella che disprezzano come la «politica del testosterone».

Il rischio? Essere noiosi. Harris e i vertici dem in realtà sembrano averlo capito. A Chicago non hanno esitato ad attaccare Trump e il suo vice senza esclusione di colpi. Dopo ogni stoccata, però, tornano alla «gioia». Il mix potrebbe funzionare, anche perché di Harris gli oratori hanno anche messo in evidenza l’esperienza come procuratore inflessibile. Una “dura” sorridente? Una combattente gioiosa? Forse. Ma, come ha avvertito Bill Clinton: «La gioia è fantastica, ma non necessariamente fa vincere le elezioni».

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