venerdì 17 gennaio 2020
Se il carbone ha rappresentato un motivo di incontro fra gli Stati europei all'indomani della Seconda guerra mondiale, oggi è considerato il nemico numero uno del clima
Un treno trasporta lignite alla centrale elettrica di Niederaussem a ovest di Colonia in Germania

Un treno trasporta lignite alla centrale elettrica di Niederaussem a ovest di Colonia in Germania - Reuters

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Per capire l’importanza del «Green Deal» europeo, che con l’obiettivo «emissioni zero» punta a raggiungere la neutralità climatica del Continente entro il 2050 – cioè raggiungere l’equilibrio tra emissioni e assorbimento di carbonio – bisogna fare un passo indietro. Un salto abbastanza lungo, fino al 18 aprile 1951, giorno della nascita della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Data storica per l’Europa: con la firma del Trattato di Parigi nasceva l’istituzione all’origine del processo federale che avrebbe portato alla Comunità Economica Europea e, nel 1992, all’Unione Europea.

Il carbone e l’acciaio, fondamentali per l’industria bellica, non erano due semplici materie prime: creare un mercato comune tra sei Paesi – Francia, Germania Occidentale, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo – voleva dire trovare un terreno di incontro tra popoli che fino a pochi anni prima si erano combattuti sui fronti della Seconda Guerra Mondiale, e porre le basi per costruire una casa comune in un grande progetto di pace.

A quasi 70 anni l’Europa è impegnata in una nuova sfida epocale: far fronte al riscaldamento climatico assumendo decisioni impegnative di politica energetica e industriale, sapendo che anche su questo fronte si gioca una partita ispirata a ideali di pace. Non sono più 6 Paesi, ma 28, anche se uno, la Gran Bretagna sta lasciando la compagnia. È un’Europa più forte, ma anche più fragile: le spinte disgregatrici, come dimostra non solo la Brexit, ma anche la risorgenza di sentimenti nazionalisti, rischiano di rendere le fondamenta dell’edificio comune meno solide. E, ancora una volta, al centro della sfida c’è uno dei protagonisti del “patto” originario. La differenza col passato è però totale: se il carbone ha rappresentato un motivo di incontro per mettere fine ai conflitti sanguinosi combattuti anche fisicamente attorno ai suoi bacini estrattivi, oggi è considerato il nemico numero uno del clima, perché l’energia prodotta da centrali che lo impiegano emette almeno il doppio di CO2 rispetto al gas naturale.

L’addio al carbone non è facile. In Europa sono ancora attive circa 280 centrali che lo impiegano, più di due terzi vecchissime, e circa il 17,5% dell’energia primaria nel Continente è prodotta in questo modo. In Germania la quota, tra carbone e lignite, raggiunge il 25%, e per questo è una buona notizia l’annuncio di un’accelerazione nella chiusura delle centrali. Tra i Paesi con maggiore quota di energia generata dal carbone spicca la Polonia, con l’80%. È per questo che i maggiori stanziamenti del Fondo per una transizione equa voluto da Bruxelles, circa 2 miliardi, dovrebbero andare a Varsavia, e 877 milioni a Berlino (364 invece per l’Italia, che ha un mix energetico già più sostenibile).

La decarbonizzazione, tuttavia, non sarà un processo semplice, e il caso Polonia è paradigmatico: non solo perché attorno al carbone ruotano migliaia di posti di lavoro, sostegni politici capaci di indirizzare i governi, e ragioni storiche: un tema decisivo è quello dell’autonomia energetica, e la possibilità di non dover dipendere da altri Paesi, in primis dalla Russia. Una questione che in generale riguarda tutta l’Unione Europea, che importa più energia di quanta ne produce. Per questo il «Green Deal», per l’Europa, è un’occasione per affrontare l’emergenza climatica, ma anche per trovare un equilibrio ispirato a una volontà unitaria, in quello che non può che essere un disegno di pace.

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