Un cambiavalute clandestino sul lato colombiano del confine
L’auto si ferma di scatto. La sbarra metallica è ad un centinaio di metri, nascosta dal groviglio di bancarelle dei cambia-moneta. Da qui si procede a piedi. Da ventisette mesi, la frontiera tra Colombia e Venezuela è chiusa per merci e relativi mezzi di trasporto. Solo il flusso pedonale è consentito. Il divieto non ha bloccato il via vai di veicoli. L’ha solo spostato sui viottoli sterrati che si aprono ai lati della strada principale, la Troncal Caribe. Mentre questa conduce dritta all’ufficio controllo passaporti, le trochas – come si chiamano le mulattiere – vi girano intorno. Le vetture le imboccano appena prima del gabbiotto doganale, arrivano dall’altra parte e si reimmettono sull’asfalto.
«Trochas» è una parola da memorizzare prima di attraversare i 130 chilometri di tierra de nadie (terra di nessuno) che separano Maicao-Paraguachón, l’ultima città occidentale della Guajira colombiana, da Maracaibo, seconda metropoli del Venezuela. La loro presenza è nota a tutti. A cominciare dalle autorità. Se ne contano almeno 250 lungo i 2.200 chilometri di frontiera. La maggior parte, però – 192 – è concentrata nella Guajira. «Perché non le chiudono? E perché dovrebbero farlo se ci guadagnano tutti?», afferma Yenis che attraversa il confine una volta alla settimana. «Per bachaquear, il solo modo per sopravvivere». Bachaqueo – contrabbando – è un altro dei termini da tenere a mente per decifrare il “codice” della frontiera colombo-venezuelana. Insieme ad «atracos», rapine a mano armata. Si ripetono in continuazione. Specie nei pressi delle trochas. Chi scrive ha potuto assistere a tre in meno di un’ora. La merce più richiesta, da ladri e compratori, è la gasolina, la benzina. Spesso le auto più malridotte vengono assaltate solo per svuotarne il serbatoio. E rivenderlo sulla Troncal, ormai un gigantesco mercato – nero – a cielo aperto di carburante. Difficile stroncare il business, dato che l’autostrada collega la nazione con il prezzo più alto della benzina – la Colombia – con quella con il prezzo più basso, il Venezuela. Dall’ultimo anno, con l’economia di Caracas in caduta libera, è diventato impossibile.
Banchetti improvvisati, disseminati lungo i lati, vendono la benzina in pimpinas, taniche da un gallone (3,7 litri). A un costo direttamente proporzionale alla distanza da Maracaibo. A Paraguachón, dal lato colombiano, una pimpina costa 3.700 pesos (circa un euro): meno della metà di quanto si paga al distributore. Appena varcato il confine si passa a 3.700 bolivares, stesso numero, un settimo del valore. A metà tragitto – all’altezza della suggestiva laguna di Sinamaina – si scende a 2.500 bolivares. Alla periferia della metropoli si arriva a 1.800. Cioè almeno 81 volte il valore ufficiale. In una qualunque pompa del colosso statale Pdvsa, la benzina costa da 1 a 6 bolivares al litro, in base alla qualità.
«Il problema è che la maggior parte delle volte non se ne trova una goccia. E quando c’è, si devono fare almeno tre ore di fila per poter rifornire. Chi lavora non può permetterselo», afferma Ramón, ex insegnante divenuto pimpinero (contrabbandiere di benzina). Mestiere diffuso. Con il 40 per cento delle raffinerie fuori uso per mancanza di pezzi di ricambio, la produzione di Pdvsa cala di un 5 per cento all’anno. Risultato: a Maracaibo – il cui lago è il cuore petrolifero del Venezuela –, dopo cibo e medicine, da qualche mese, anche la benzina scarseggia. Almeno nel circuito legale. Per chi può pagare, ci sono Ramón e soci. «In città, vendo benzina da pochissimo, da quando i distributori hanno iniziato ad andare in panne», racconta mentre si avvicina con discrezione a una trentina di auto in coda per rifornire. Non deve dire niente: gli basta mostrare il collo di una bottiglia di plastica perché gli eventuali clienti capiscano. «Cerco di essere onesto e di fare un prezzo giusto. Mica mi metto tutto in tasca. Devo pagare un sacco di gente per poter lavorare. La fetta più grossa va ai capi. Non penserai che si possa fare in proprio? Poi c’è la Guardia nacional bolivariana, fornitori di Tag…». La “targeta de abastecimiento de gasolina”, meglio nota come Tag o chip, è stata introdotta dal governo del presidente Nicolás Maduro, nel 2015, in chiave anticontrabbando: un cittadino delle città vicino alla frontiera non può comprare più di 32 litri al giorno per le auto private e 90 per il trasporto pubblico.
«Basta conoscere le persone giuste e puoi procurarti un bel po’ di tag», aggiunge Ramón. Lui, ad esempio, ne ha cinque. A Maracaibo smercia poche pimpinas. La maggior parte le tiene per la Troncal e Paraguachón, in Colombia. «Il prezzo cresce, ma anche quanto devi sborsare per arrivarci ». L’autostrada è disseminata di caselli informali a cui i pimpineros devono fermarsi. Il pedaggio varia. Il più alto lo impongono i militari e gli agenti di frontiera colombiani. Il più basso agli indigeni wayú che controllano le trochas: per cento bolivares tolgono il tecate, la fune con cui impediscono il passaggio delle auto. La mafia della benzina è la più strutturata: fa fluire verso la Colombia un fiume di 100mila barili di carburante al giorno, secondo le stime di Pdvsa. Circa la metà della produzione totale viene trafficata, con una perdita per la compagnia di 2,2 miliardi di dollari l’anno.
Non è, però, l’unico tipo di bachaqueo: sulla frontiera si contrabbanda ogni genere di prodotto. Le chivas – bus colorati e stracarichi – trasportano di continuo, a Paraguachón, venezuelani con qualcosa da vendere nascosto in valigia. Dopo aver ottenuto un po’ di pesos, ne reinvestono una parte in acquisti da piazzare in patria. Una parte di tale flusso parallelo finisce nell’economia “legale” venezuelana. Questo spiega perché, al contrario di quanto ripete un certo leitmotiv mediatico, i supermercati di Maracaibo non siano vuoti: si trovano perfino diversi modelli di ciotole per cani. A mancare sono le merci a prezzi controllati. I beni di importazione – a costo di mercato – ci sono tutti. Il punto è che nessuno può permetterseli, perché un litro d’olio vale un dodicesimo del salario medio. È il grande paradosso della Revolución bolivariana ai tempi di Maduro: nata per realizzare la giustizia sociale, ha creato, nella pratica, un sistema ferocemente diseguale. In cui una ristretta fascia sociale ha a disposizione bar di lusso con ogni tipo di caffè. E può scegliere tra McDonalds, Pizza Hut e Burger King, concentrati in 200 metri di Avenida Fuerzas Armadas. Il resto si arrangia. O se ne va.
«Non c’è famiglia che non abbia un parente all’estero», afferma Daniela Guerra, avvocato e coordinatrice della combattiva organizzazione per i diritti civili Codhez. «Prima emigrava soprattutto la classe media, insofferente alla restrizione delle libertà. Ora all’esodo si sono uniti poveri, rimasti senza cibo e medicine», spiega Jheimmy Naizzir Velázquez, direttrice del Centro migranti di Maicao, creato dalla Pastorale sociale di Riohacha. È l’unica struttura di questo tipo nella Guajira. La regione è divenuta, nell’ultimo anno, snodo emergente, dopo la saturazione del tradizionale corridoio del Santander. Nel 2016, l’ufficio migratorio ha registrato una media di 88 arrivi al giorno, ora sono 150. «E stiamo parlando solo di entrate legali. Dobbiamo triplicare tale cifra se includiamo le trochas». Purtroppo i «nuovi venuti» si ritrovano catapultati nella regione più povera della Colombia. A competere con i locali, in una furibonda lotta fra disperati, per i lavori più umili e malpagati. «Credono che noi stiamo meglio, perché il peso vale sette volte il bolivar. Ma qui i prezzi sono molto più alti e, a differenza loro, non abbiamo acqua e luce a prezzo politico – dice Karina, domestica a ore, marito disoccupato e cinque figli –. La mia famiglia, come tanti da queste parti, non sopravvivrebbe senza il bachaqueo . Le autorità dei due Paesi lo sanno e lasciano fare. È una valvola di sfogo. E conviene a tutti. Soprattutto alle mafie».