Un homeless a Londra - Ansa
Li chiamano "senza tetto invisibili" perché non dormono sotto i ponti, sui marciapiedi, per strada. Sfuggono allo sguardo e alle statistiche perché nascosti nelle case di parenti, amici e conoscenti che li accolgono di tanto in tanto ad alleggerire la fatica del loro peregrinare.
La vita di tanti clochard di oggi, spesso professionisti trascinati sul lastrico dalla recessione, è sospesa tra divani–letto, tappeti stesi sul pavimento o, se va bene, materassi di anonime stanze degli ospiti. Bibi Lynch, scrittrice freelance oggi senza lavoro, è una di questi. In un articolo pubblicato dal Telegraph, la donna, 55 anni, racconta la sua storia mettendo a nudo la drammaticità di una piaga ancora poco nota. Con agghiacciante lucidità, avverte: «Può succedere a chiunque».
Non ci sono dati che possano rendere con esattezza la portata del fenomeno. Per pudore, molti sono quelli che spacciano il disagio di non avere un domicilio fisso con la flessibilità modaiola del cosiddetto "couch surfing", ovvero "navigazione di sofà". Secondo l'associazione britannica "Crisis", i senza tetto che fuggono alla classica definizione potrebbero essere un numero pari alla metà dei circa 300mila "ufficiali" registrati nel Regno Unito. Un esercito, si direbbe, che nei prossimi mesi potrebbe crescere ulteriormente. A fine ottobre, quando avrà termine la cassa integrazione disposta per contenere la crisi innescata dalla pandemia, è atteso uno tsunami di disoccupati. Il numero dei senza fissa dimora è destinato a esplodere a marzo 2021 quando verrà meno il divieto di sfratto attualmente in vigore per attutire il peso della recessione sulle fasce più deboli della popolazione. Saranno tempi duri, in particolare, per gli homeless di origine europea che, secondo una legge proposta dal ministero degli Interni nell'ambito delle politiche post Brexit, potrebbero essere deportati nei Paesi di origine.
Luca, il nome è di fantasia, è un italiano di 35 anni. Si è trasferito nella capitale britannica due anni e ha investito tutti i suoi risparmi in un master in ingegneria grazie a cui, queste erano le sue speranze, avrebbe trovato un lavoro ben retribuito. Non è andata così. Luca ha completato gli studi a settembre ma un impiego non ce l'ha ancora, né sa se mai riuscirà a trovarlo. Oggi è ospite di una coppia di amici a Camden Town, tra una settimana si sposterà nel minuscolo appartamento di un lontano cugino che vive a Crouch End, poi chissà. Quando la disperazione è tanta si finisce per chiedere ospitalità anche a perfetti sconosciuti di cui è stato memorizzato il numero di telefono. Per due settimane, Khám, 40 anni, consulente finanziaria di origine indiana, senza più un lavoro da giugno, ha dormito sul materassino gonfiabile di un ragazzo conosciuto mesi addietro a una festa. La sistemazione successiva è stato un tappetino da yoga steso sul pavimento della cucina di una collega. Natalie Moran, direttore della onlus "Simon on the Street", è preoccupata per i limiti che la seconda ondata di coronavirus nel Regno Unito (ieri altri 21.242 casi e 180 morti) porrà alla generosità di chi accoglie vagabondi in cerca di un divano per la notte. «In questo momento di particolare difficoltà – spiega – è importante che l'accoglienza genuina e creativa non venga meno».
Un appello che stride con l'atteggiamento corrivo degli studenti universitari che, del tutto incuranti delle restrizioni imposte per frenare la corsa del virus, allestiscono feste e banchetti negli alloggi dei campus. Mercoledì, alla Nottingham Trent University, sono scattate quattro multe da 10mila euro che forse contribuiranno alla comprensione del problema. La sera del 27 novembre i clochard invisibili sono stati incoraggiati a uscire allo scoperto per far capire al pubblico quando grave sia il fenomeno che li riguarda. L'invito è a condividere sui social una foto del proprio divano–rifugio usando l'hashtag #SimonsBigSofaSurf.