Sulle montagne del Paese vige ancora l’antico codice della faida. E i bambini delle famiglie «sotto vendetta» non possono uscire di casa per paura di essere uccisi. Una docente volontaria li fa studiare a domicilio: nella foto proprio lei la professoressa Liljana Luani in casa di uno dei suoi alunni
Quando lo scorso giugno, nel giorno degli esami finali, Agustin è uscito per andare a scuola, da cinque mesi non metteva piede fuori casa. Lui, i fratelli e la madre Aghetina (i nomi non sono quelli reali) da tempo vivono all’erta per una faida di sangue che mette in pericolo tutti i maschi della famiglia. Il padre è in carcere per un omicidio con cui vendicò lo zio vent’anni fa, ancora prima che Agustin nascesse. Ma in Albania le faide attraversano i decenni e le vendette possono aspettare. I fratelli più grandi si sono dileguati sui monti, così il più esposto ora è lui, soprattutto da quando, un anno fa, un nuovo omicidio ha aperto un’altra faida che si è aggiunta alla precedente. Con la madre, il ragazzo ci accoglie sul cancello di casa. Vivono in una modesta stanza in affitto, a nord di Scutari. «Agli esami ha ottenuto voti alti. Il merito è tutto suo, ha voglia di studiare!» dice, guardandolo con approvazione, Liljana Luani, la professoressa che gli ha impartito lezioni a domicilio.
Agustin è uno dei ragazzi reclusi in casa per la “gjakmarrja” (la “presa del sangue”, ndr), la faida per come la prevede il Kanun, un compendio di norme di convivenza che risale al XIV secolo. Sulle montagne, il codice la spunta ancora rispetto alla legge di una nazione che, se lungo la costa e nella capitale corre verso il futuro, nelle vallate resta impigliata nel passato. Quella di Agustin è una delle 704 famiglie colpite da faida di sangue secondo la ricerca svolta nel 2018 dalla professoressa Liljana Luani in sei province, da nord fino a Tirana, con l’aiuto della polizia e i fondi di Oshee, la compagnia elettrica nazionale. Dal 2005, quando la sua attività volontaria nelle case è cominciata, alla professoressa è capitato di incontrare tanti ragazzi “auto- reclusi”: ci racconta di Edi che rifiutava di restare in casa. «Gli spettinavo sempre il ciuffo e lui diceva: “Prof, fammi di tutto, ma non i capelli!”. Un mattino a 100 metri da scuola è stato ucciso, colpito alla fronte». Poi c’è stata Maria che per la festa di Sant’Antonio era in montagna dai nonni. «Non si sa da dove fossero venuti gli spari però lei e il nonno sono stati trovati per terra, senza vita. Questi casi mi fanno cadere nella disperazione. Poi però mi rialzo: è una lotta quotidiana per una soluzione positiva. So che riusciremo a sconfiggere il fenomeno, ma le famiglie hanno bisogno di aiuto: niente lavoro, istruzione e povertà estrema, in una faida da un problema ne deriva sempre un altro». La madre di Agustin ci fa accomodare nella stanza: «Devo stare attenta, non posso mettere a rischio i miei figli. L’altra famiglia (quella “nemica”, ndr) non vive lontano, ci vede quando usciamo in cortile».
Per il Kanun la casa è sacra, niente vendetta all’interno. Anche donne e ragazzi fino a 15 anni dovrebbero essere risparmiati. «Nell’anarchia degli anni ’90, le norme tradizionali, però, si sono trasformate, sono degenerate, spesso per giustificare la violenza del periodo. Molti fanno riferimento al Kanun, pochi lo conoscono davvero. Così anche donne e bambini vengono coinvolti» spiega Tommaso Di Nicola di Operazione Colomba della Comunità Papa Giovanni XXIII, nell’ambito della quale volontari italiani svolgono visite a famiglie “sotto vendetta”: «Dare attenzione a sofferenze inascoltate ha conseguenze positive in termini di abbassamento della tensione, della frustrazione e del desiderio di vendicarsi ». «Il disonore non si vendica con compensi ma con spargimento di sangue o perdono», si legge nel Kanun di Lek Dukagjini, condottiero albanese del Quattrocento a cui si attribuisce la versione più diffusa del codice. Di perdono ci parla l’arcivescovo di Scutari Angelo Massafra: «Si cita solo la vendetta, ma il Kanun è anche altro: riconciliazione e norme su come gestire vita famigliare, diritti, proprietà ». Per il perdono «ci vuole pazienza. Ho vissuto riti riconciliatori emozionanti nelle case delle famiglie, con i membri che si passavano il crocifisso gli uni gli altri, o in chiesa, in pubblico. Caso particolare fu quello in cui i due figli più giovani di clan contrapposti hanno sciolto gocce di sangue nella grappa e bevuto l’uno il sangue dell’altro. Cristiani, musulmani, poveri, ricchi, il fenomeno riguarda tutti. Cultura, benessere e fede aiutano a sradicare il fenomeno». Per la famiglia di Agustin, fino ad ora, il tentativo di riconciliazione è andato a vuoto. Quando usciamo dal cancello della casa del ragazzo, lui si ferma sulla soglia. Una linea da non superare, invisibile ma netta, divide lui che resta all'interno da noi che ci allontaniamo.
704 le famiglie colpite dalla faida nelle 6 province del nord, Tirana compresa, (591 sono ancora in Albania)
113 le famiglie coinvolte che ora vivono fuori dai confini nazionali (il 21 per cento delle quali in Italia)
37 le famiglie albanesi totalmente isolate (con 28 bambini che non frequentano la scuola)
UNA VENDETTA CHE NON SI RIESCE A CANCELLARE
Parola d’onore, vendetta, virilità, sono tutt’altro che concetti tramontati nel nord dell’Albania: sopravvive sulle montagne (ma si sposta con il migrare della popolazione, anche oltre i confini nazionali) il codice medievale del Kanun, in cui norme di convivenza di origine cristiana, regolatrici dell’ordine pubblico e deterrente nelle controversie, vengono ancora rispettate. Giustizia “fai da te” perpetuata per secoli con l’eccezione del periodo comunista, il Kanun è rinato spesso dalle sue ceneri, come negli anni ’90. Fino al 2012 le autorità hanno relegato le vendette a eventi marginali, ma ora c’è più attenzione. Ripetutamente le istituzioni europee hanno rivolto inviti a contrastare il fenomeno, in vista dell’adesione alla Ue.