martedì 1 ottobre 2024
Quella che una volta era la “città-giardino” è diventata l'epicentro delle operazioni dell'esercito israeliano. «Ormai il Comune non ricostruisce nemmeno più. Tanto i militari torneranno»
Distruzione nel "quartiere orientale" di Jenin

Distruzione nel "quartiere orientale" di Jenin - Ansa

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Dall’entrata di al-Jalama, che collega il nord di Israele con la Cisgiordania, Jenin dista appena quattro chilometri. Ma il cancello giallo lungo il confine è sprangato a tempo indeterminato. Per raggiungere la città-giardino – come è chiamata dalla radice in ebraico del suo nome –, si devono circumnavigare i Territori, attraversando la Valle del Giordano: una sessantina di chilometri e due ore in più di viaggio. «Naturale che il commercio sia collassato dal 7 ottobre, quando i blocchi si sono intensificati. Nessuno è disposto a fare tanta strada per venire a comprare da noi, come faceva prima – afferma Shahnaz, 34 anni, formatrice dell’Omniah youth centre, centro per l’integrazione socio-economica di giovani e persone vulnerabili creato quasi vent’anni fa dal governo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) –. Eppure preferisco quando il check-point di al-Jalama è chiuso. Quando è aperto, significa che stanno arrivando i militari israeliani». I blitz dell’esercito fanno parte della routine di Jenin fin dal 2021: le autorità di Tel Aviv considerano il suo campo profughi, in cui risiedono 25mila degli oltre 70mila abitanti – il covo dei miliziani di Hamas e, soprattutto, della Jihad islamica in Cisgiordania. Mai, però, come nell’ultimo anno, le incursioni si sono fatte tanto frequenti ed intense. Summer camps ha innalzato ulteriormente il livello. La notte tra il 27 e il 28 agosto, le forze armate israeliane (Tzahal) hanno lanciato sul nord dei Territori la più massiccia operazione dal 2002. La città ne è stata l’epicentro: 21 delle 39 vittime sono state uccise al suo interno. Tra loro otto bambini e un anziano di 85 anni. Per dieci giorni, centinaia di truppe l’hanno invasa e paralizzata. Agli abitanti è stato impedito di uscire di casa, anche solo per andare a comprare il cibo. Sono rimasti letteralmente intrappolati, «Con accesso limitato all’assistenza sanitaria, poiché i veicoli militari sono stati piazzati davanti agli ospedali e alle ambulanze e gli operatori sanitari sono stati ripetutamente perquisiti e persino aggrediti», ha denunciato Medici senza frontiere (Msf). «Che cosa ho fatto? Ho dormito, che altro potevo fare? I primi due giorni ci hanno tolto anche Internet, oltre alla luce e all’acqua», racconta Ahmed 22 anni. «Prima si “limitavano” al campo, con arresti di massa, uccisioni e distruzione di strade e infrastrutture. Ora, invece, non fanno più distinzione. L’intera città è in macerie», aggiunge Shahnaz e per dimostrare la propria affermazione si offre come guida nel “tour delle rotonde che non ci sono più”, come lo definisce, con una punta di ironia. Come nel resto della Cisgiordania, a Jenin le rotonde sono una sorta di monumenti spontanei alla lotta all’occupazione. La gente vi appena le foto dei caduti, fra le bandiere palestinesi. «Ecco perché gli israeliani le odiano. Sono il nostro parametro del livello di distruzione. Ormai ne è rimasta solo una, quella dell’Arab american university». Il resto, dal centro alla periferia, sono state spianate. Su una, proprio a ridosso della principale Nablus road, penzola ancora il cartello con la pubblicità del salone “Beauty”. Scomparso anche il monumento alla “grande anguria” e buona parte delle aiuole. Il più colpito, però, è stato il “quartiere orientale” dove i buldozer hanno trasformato le strade in una poltiglia di asfalto. La furia distruttrice non ha risparmiato neanche il cimitero. «All’inizio, il Comune ha provato a riparare i danni. Solo per vedere le stesse vie e marciapiedi devastatati nell’operazione successiva. Alla fine ha smesso», dice rassegnata la ragazza mentre dribbla i pezzi di marciapiede sparsi qua e là, senza nemmeno farci caso. Le macerie sembrano essere diventate ormai parte integrante del paesaggio urbano. Nel vicino “quartiere tedesco”, i ragazzini giocano a calcio nello stadio in rovina: le gradinate e gli spalti sono un ammasso di cemento, il muro che lo separava dalla scuola maschile e dalla moschea è crollato. Gli aspiranti campioni badano, però, solo palla che rotola vorticosamente fra l’erba misteriosamente intatta. «Anche questa è una forma di resistenza – sottolinea, in perfetto italiano Ajmad, insegnante 35enne –. Ho frequentato l’Università a Perugia. Sono rientrato perché mio padre stava male. Una soluzione temporanea: ero deciso a tornare in Italia. Poi è scoppiata la guerra e ho capito che dovevo restare. Non voglio abbandonare il mio popolo». «Certo non è facile, sei sempre su chi vive» gli fa eco Ahmed. A poco più di una settimana da “Summer camps”, Tzahal ha lanciato un nuovo blitz su Qabatiya, una delle molte propaggini di Jenin: sette persone sono state uccise. Nel giro di dodici mesi, secondo gli ultimi dati Onu, 693 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania, quasi duecento di questi nella “città-giardino”. Al pugno di ferro di Israele si somma la crescita delle formazioni radicali che esercitano un controllo capillare del territorio. Il campo è sotto “l’autorità” della Jihad islamica: non si accede senza il loro permesso e si cammina vigilati da miliziani in moto che non fanno nulla per nascondere la propria presenza. «Non hanno neanche necessità di sforzarsi di arruolare i giovani. Alla fine di ogni operazione di Tel Aviv, hanno la fila degli aspiranti miliziani», dice un residente del campo che chiede di non essere identificato. L’influenza del fondamentalismo cresce pure nel resto della città dove, a differenza di Ramallah, la gran parte delle donne indossa il velo e gli uomini la tunica tradizionale. Anche Shahnaz indossa l’hijab. «Ma è stata una scelta personale. Nella mia famiglia siamo molto aperti», precisa e per dimostrarlo si accende una sigaretta. «La gente è esasperata. Certo, non viviamo una catastrofe come a Gaza ma la gran parte delle persone ha perso l’impiego a causa del congelamento dei permessi di lavoro in Israele», dichiara Mohammed, coordinatore dell’Omniah youth center. Al centro prima si rivolgeva una media di duecento persone al mese. «Ora sono almeno mille, a volte due o tremila. Chi sono? Disoccupati, famiglie del campo rimaste senza casa, donne vittime di disturbi post-traumatici da stress – conclude –. A volte mi sento impotente. Poi guardo la gente che, dopo ogni blitz, si rimbocca le maniche per risistemare la casa e prendo esempio".

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