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«Ha commesso un grave errore e pagherà un prezzo salato». Nei toni, le parole rivolte dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, all’Iran ricordano il monito lanciato all’Assemblea generale: «Se ci colpirete, vi colpiremo». Nella sostanza, però, è difficile capire quale sia il «prezzo salato» con cui Tel Aviv risponderà al lancio, martedì, di 180 missili da parte di Teheran. Un’incursione quest’ultima plateale nella forma, “contenuta” nella sostanza: un palestinese ucciso a Gerico, un centinaio di case danneggiate probabilmente dalla contraerea e almeno tre basi militari colpite. Ma pur sempre un “colpo”. Dopo quattro ore di vertice di gabinetto notturno, Netanyahu ha trascorso buona parte della giornata di ieri in una raffica di riunioni con i propri consiglieri nel bunker di Gerusalemme per definire l’entità del “conto” da presentare alla Repubblica islamica. Una forma di risposta – nonostante la minaccia del governo iraniano di «conseguenze devastanti», rinnovata ieri dal presidente Masud Pezeshkian – è quasi certa. «Reagiremo con potenza e precisione», ha tuonato il comandante dell’esercito, Herzi Halevi. E, appena terminata la ronda di consultazioni, Netanyahu ha rincarato la dose: «Siamo nel mezzo di una dura guerra contro l'asse del male dell'Iran, che cerca di distruggerci. Questo non accadrà, perché saremo uniti e, con l’aiuto di Dio, vinceremo insieme». Il punto resta, però, la misura. L’opzione più probabile, secondo fonti diplomatiche israeliane, è l’attacco ad un’infrastruttura strategica degli ayatollah, come un impianto petrolifero o per l’estrazione di gas. Non si escludono, però, soluzioni più drastiche, con l’elevato rischio di un allargamento del conflitto. «Israele potrebbe attaccare uno o due obiettivi abbastanza importanti da mandare un messaggio ma non così “sensibili” da causare un’escalation», Ori Goldberg, profondo conoscitore delle vicende mediorientali e analista controcorrente.
«Il fatto è che il governo non è in grado di andare oltre i risultati tattici, per quanto significativi. Manca una strategia – aggiunge –. Netanyahu probabilmente vuole uno scontro con Teheran. Deve, però, tenere in considerazione una serie di fattori, primo fra tutti Washington, del cui sostegno ha necessità per combattere l‘Iran. A cinque settimane dalle elezioni, gli Usa potrebbero centellinare il proprio appoggio a un alleato sempre più scomodo per l‘attuale Amministrazione». Il commento del presidente Joe Biden ai giornalisti, prima di partire per la North Carolina travolta dall’uragano, va in questa direzione. Il capo della Casa Bianca ha risposto un secco no a chi gli chiedeva se Washington avrebbe supportato raid israeliani contro i siti nucleari iraniani. E ha ribadito la necessità di una «risposta proporzionata». Alla riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza di ieri, gli Stati Uniti si sono profusi in un appassionato “j’accuse” della Repubblica islamica. Non solo ha chiesto nuove sanzioni per i pasdaran, ma hanno ribadito il diritto di Israele alla difesa. Dietro le quinte, però, la Casa Bianca sta cercando di mediare tra i due contendenti, i quali si sono esibiti in un furibondo duello verbale di fronte all’Onu. Da una parte, l’ambasciatore iraniano, Amir Saeid Iravani, ha parlato di «legittima azione», nel «pieno rispetto del nostro diritto all'autodifesa secondo l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite».
Dall’altra, il rappresentante israeliano, Danny Danon, ha denunciato «l’assalto esistenziale» messo in atto dagli ayatollah. «Il silenzio, le richieste quotidiane alla de-escalation aiutano l’Iran. Teheran deve pagare, tutto il resto è complicità». La stoccata, stavolta, più che alla Repubblica islamica era rivolta al segretario generale, António Guterres, definito poche ore prima «persona non grata» dal ministro degli Esteri di Tel Aviv, Israel Katz. A spingerlo ad adottare una decisione tanto radicale – il divieto alla massima autorità diplomatica internazionale di entrare nel Paese – la «mancata condanna» – dicono gli israeliani – dell’aggressione iraniana. Mentre i razzi sfrecciavano nei cieli di Gerusalemme e Tel Aviv, Guterres aveva rivolto un accorato appello a fermare la pericolosa deriva bellica. Di fronte alle rimostranze di Tel Aviv ha, poi, precisato la «ferma condanna» dell’incursione di martedì ma ha anche ribadito l’urgenza di «interrompere il ciclo della violenza che brucia il Medio Oriente».
Non è una metafora. Il Libano è in fiamme. Anche nella notte tra martedì e ieri, c’è stata una nuova incursione di terra delle forze armate di Tel Aviv (Tzahal, dall’acronimo). Altri venti villaggi del sud sono stati costretti a sfollare, segno che l’area dei combattimenti continua ad allargarsi. Fonti umanitarie parlano di un migliaio di vittime in due settimane e 1,2 milioni di sfollati. Anche i militari di Tzahal, però, stanno cominciando a morire «nell’invasione limitata». L’esercito parla di almeno otto caduti. La notizia è arrivata in un momento delicato per l’opinione pubblica israeliana, già scossa dall’azione iraniana. Si avvicina, inoltre, l’anniversario del massacro del 7 ottobre: occasione per ricordare gli uccisi ma anche i 101 rapiti ancora in ostaggio dopo dodici mesi. Tra l’escalation con l’Iran e l’apertura del fronte nord, l’accordo per il loro rilascio sembra rinviato a data da destinarsi. A sud, poi, la situazione è tutt’altro che sotto controllo. Con quasi 24 ore di ritardo, Hamas ha rivendicato l’attentato di Jaffa in cui sono state uccise 7 persone e altre 16 ferite. I due killer – Mohammad Mesek e Ahmed Himouni – erano esponenti di una cellula del gruppo armato attiva a Hebron. E, ha sottolineato Hamas, avrebbero fatto coincidere volutamente l’aggressione con il raid di Teheran. Israele però non ne è certo.
In ogni caso, quella di martedì è stata la strage terroristica di maggiore entità in Israele dal 7 ottobre. Nonché la più grave subita da Tel Aviv dalla Seconda Intifada. Il governo ha, dunque, reagito con il pugno di ferro. La parte di Hebron sotto amministrazione militare, circondata dagli insediamenti – la cosiddetta H2 – e i villaggi sono stati isolati: non si entra né si esce. Perquisizioni e blitz sono andati avanti per tutta la giornata: 5 familiari degli attentatori sono stati arrestati, tre paramedici sono stati feriti.
«È una situazione folle – racconta via WhatsApp, Issa Amro, noto attivista nonviolento residente nella “città di Abramo” –. Hanno dichiarato il coprifuoco: non ci consentono nemmeno di uscire di casa. E chi era fuori non è potuto tornare. Fuori si sente il rumore dei droni e le grida dei coloni intorno che ne approfittano per attaccarci». Dopo il 7 ottobre, H2 e i suoi 35mila abitanti sono rimasti in lockdown per mesi. Sulla strada che da Gerusalemme porta a Hebron è deserta. Un venditore di fiori siede fra i blocchi di cemento piazzati per ostruire il passaggio. «Magari qualche soldato ne comprerà un mazzo per la famiglia – dice –: dopotutto è il Capodanno ebraico».