La richiesta di aiuto a Biden dei parenti degli ostaggi - Reuters
Kaplan street, di nuovo. Domani sera, il popolo-anti-Netanyahu tornerà ad affollare la via nel cuore di Tel Aviv. È la prima volta che la società civile, nelle sue componenti più disparate, si mobiliterà in massa dal 7 ottobre. Il brutale massacro perpetrato da Hamas nei kibbutz del sud aveva interrotto la rivolta che, nei nove mesi precedenti, per 39 sabati al termine di Shahbat, aveva portato per strada centinaia di migliaia di persone per dire no alla riforma della giustizia proposta dal governo. Il 7 ottobre sarebbe stato il 40esimo sabato. Quel giorno, però, storditi dal trauma per l’attacco più grave della storia nazionale, gli israeliani non se l’erano sentiti di manifestare.
Da allora, i vari movimenti – guidati da “Hofshi b’artzenu” cioè “liberi nella nostra patria” – avevano deciso di dare una tregua all’esecutivo in nome dell’unità contro il terrorismo. Gran parte dei gruppi coinvolti, a cominciare da “Brothers and sisterm in arms”, si erano trasformati, nel giro di 24 ore, in organizzazioni di soccorso per i familiari delle 1.200 vittime e dei 254 rapiti, i 10mila feriti, gli oltre 200mila sfollati interni.
A manifestare, per chiedere il ritorno a casa degli ostaggi, nel frattempo, erano stati i parenti, sempre più esasperati dai ripetuti fallimenti dei negoziati per liberare i 134 sequestrati ancora nelle mani di Hamas a Gaza. «Ora, però, è tempo di tornare in piazza, a Tel Aviv e in altre 24 città. Questo governo ha fallito e deve andarsene», spiega Lital Schochat Chertow di “Hofshi b’artzenu”. In realtà non si tratta di un semplice ritorno. «Ci saranno di certo quanti hanno partecipato alle proteste contro la riforma giudiziaria. Ma verranno anche persone nuove. A partire da quante hanno subito sulla propria pelle le atrocità e le conseguenze del 7 ottobre – aggiunge – e si sono sentite abbandonato dal governo. Ormai oltre il 70 per cento degli israeliani ritiene che dovrebbe dimettersi». Il fronte anti-Netanyahu è, dunque, ampio e variegato. Ne fanno parte progressisti e conservatori moderati, liberali, pacifisti e promotori del dialogo con i palestinesi, militari e riservisti. A unirli la convinzione che il governo di ultradestra abbia «fallito» – lo ripete più volte Lital. «Lo ha fatto il 7 ottobre quando non è stato in grado di proteggerci impedendo la strage e garantendo adeguati soccorsi. E continua a fallire».
Fin dal principio, gli oppositori criticano la mancanza di gesti di vicinanza nei confronti dei colpiti. Ad acuire la rabbia, ora, la presentazione della finanziaria approvata dall’esecutivo il 15 gennaio.
Il testo – che dovrebbe essere approvato dal Parlamento lunedì – non è stato ancora diffuso in forma integrale. Dalle prime informazioni – rilevate da Peace Now – risulta un taglio del 15 per cento sul Welfare, una misura che pesa soprattutto sui programmi per l’integrazione dei cittadini di origine araba. Allo stesso tempo viene aumentato il budget per gli insediamenti in Cisgiordania all’equivalente di 188 milioni di euro. «E si tratta solo di una piccola parte dei finanziamenti per i coloni – precisano da Peace Now –. Mancano molti di quelli erogati a livello regionale e i costi per il mantenimento e la protezione degli insediamenti attuali».
«Questo conferma che a Netanyahu importa più la tenuta dalla sua coalizione, che include i rappresentanti di coloni e ultraortodossi, dell’interesse generale. Non possiamo avere fiducia né nella gestione del Paese né della guerra – dice Lital –. Al di là di come la si pensi sul conflitto a Gaza, è evidente che il governo non ha un’idea per il dopo. E resta il dubbio che voglia prolungarlo per stare al potere il più possibile». Il fronte favorevole alla pace e ad una soluzione non militare della questione palestinese con la fine dell’occupazione e la creazione di uno Stato indipendente non è maggioritario a Israele e non lo sarà fra i manifestanti di Kaplan street.
«Ma saremo presenti – afferma Alon Le Green, co-direttore di “Standing together”, organizzazione in prima linea per la convivenza – per chiedere il cessate il fuoco nella Striscia e l’apertura del dialogo, oltre ovviamente alla dimissioni di questo governo inefficiente. Il massacro di Hamas è stata una prova durissima per il movimento pacifista. Man mano che il tempo passa, però, conferma che la guerra non risolve nulla. La pace è l’unica vera garanzia per la sicurezza di Israele. Credo che una parte crescente della società inizi a capirlo. Magari non così in fretta come vorremmo. Piano piano, però, la consapevolezza sta aumentando