L'arrivo dei manifestanti nel centro di Gerusalemme - Reuters
Rannicchiate in uno dei pochi punti d’ombra, Ilana e Tally tessono una cintura ciascuna. Bianca Ilana, rossa Tally. Colori-simbolo di speranza e rabbia – precisano –, i due sentimenti che muovono
le mani agili e instancabili delle “Penelopi”. «Già, qualcuno ci chiama così. Come l’eroina dell’Odissea aspettiamo e tessiamo. Speriamo di non dovere attendere tanto come lei, siamo qui da 7 novembre
». A un mese esatto dal massacro perpetrato da Hamas nei kibbutz del sud di Israele, c’è stato il primo raduno di fronte alla Knesset di Gerusalemme per chiedere la fine della guerra e un accordo per riportare a casa gli ostaggi. Quel giorno, qualcuna si è messa a fare la maglia per occupare il tempo.
Altre l’hanno seguita e, pian piano, è nato il gruppo di oltre cento tessitrici. «Tessitrici in molti sensi. Di fili di lana ma anche di relazioni – dice Ilana –. Tra una sferruzzata e l’altra parliamo molto e, così, ci è venuta l’idea di confezionare un nastro che si dipani per gli 80 chilometri tre il Parlamento e Gaza. Lo componiamo a staffetta
. Appena qualcuna ha del tempo libero si siede davanti alla Knesset e si mette all’opera. Io sono in pensione dunque posso venire tre o quattro volte alla settimana». Tally, insegnante e madre di tre bimbi, può farlo solo due. Come Hava, appena arrivata in compagnia del suo cane, sfollata da OrHaner - uno dei kibbutz scampati alla strage - e, al momento, alloggiata a Tel Aviv.
«L’importante è essere costanti: siamo già arrivate a 20 chilometri di maglia. Finora, però, eravamo pochi a scendere in piazza. Ma Israele si sta risvegliando»
, spiega Tally. Poi, all’unisono, esclamano: «Finalmente».
Alle loro spalle, Elezer Kaplan street, il grande viale che conduce alla Knesset, è una selva di centinaia e centinaia di tende da campeggio e banchetti. Li hanno montati domenica sera gli oltre centomila arrivati da tutto Israele e decisi a restare accampati fino a domani, quando l’Assemblea chiuderà per la pausa di primavera, per chiedere le dimissioni di Benjamin Netanyahu.
Dopo la prima notte difficile – la polizia ha sgomberato un gruppo di dimostranti che bloccavano l’accesso alla Road 1, l’entrata principale a Gerusalemme –, il sole estivo conferisce alla protesta un’area da campeggio urbano. Nei prati intorno o negli stand improvvisati, ci sono conferenze, gruppi di discussione, preghiere. I giovani prendono il sole sull’erba, mentre i più anziani cercano riparo sotto i tendoni. Ovunque la scritta in ebraico: «Tu sei il capo, tu sei il colpevole». Fin dal principio, gran parte dell’opinione pubblica israeliana aveva imputato al premier la responsabilità per non aver prevenuto l’attacco di Hamas. Traumatizzata e sotto choc, però, all’indomani della strage, la gente aveva interrotto i cortei contro la riforma giudiziaria dopo 52 sabati ininterrotti. A quasi sei mesi dall’inizio di un conflitto di cui non si vedono obiettivi chiari né fine all’orizzonte, il malcontento è riesploso. Più forte di prima. I partecipanti sono consapevoli della quasi impossibilità di ottenere una sfiducia immediata. L’obiettivo, però, è ricompattare un’opposizione variegata in modo da isolare il governo. E spingere le forze più moderate ad abbandonarlo.
Su Kaplan street ci sono gruppi di diverso orientamento politico, dai progressisti ai conservatori, e cittadini esasperati. Veterani delle proteste dell’anno scorso, riservisti e formazioni pacifiste. Oltre, ovviamente, ai parenti degli ostaggi , 134 dei quasi sono ancora nelle mani di Hamas, non si sa quanti vivi e quanti morti.
Zoar tiene bene in vista le foto di quanti ha perduto al kibbutz Be’eri. Il padre, Yosi, ucciso come i vicini, altri sono stati rapiti. Lei stessa non ha più casa – «sono rimaste solo le piante del cortile», dice – ed è una dei duecentomila sfollati interni di questa guerra. «Almeno sono qui. Troppi non ci sono. Il governo deve salvare chi può essere salvato e, invece, non lo sta facendo».