A Nasrin Sotoudeh, nel 2012, è stato assegnato dal Parlamento Europeo il Premio Sakharov per la libertà di pensiero (Ansa)
Né la pressione delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti umani né quella politica di numerosi governi stranieri hanno modificato l’iter processuale dell’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh, condannata in via definitiva a 33 anni di carcere. L’attivista non farà appello contro la sentenza, ha riferito all’agenzia ufficiale Irna il marito, Reza Khandan, precisando che la pena da scontare sarà solo quella per il reato ritenuto più grave, pari cioè a 12 anni. L’avvocatessa, nota per il suo impegno a favore dei diritti delle donne, era stata condannata anche a 148 frustate per svariati capi d’accusa, tra cui «aver complottato contro la sicurezza nazionale», «minacce contro il sistema», «istigazione alla corruzione e alla prostituzione» e per essere «comparsa senza velo in un’aula di tribunale».
Si tratta di accuse legate all’attività della Sotoudeh a difesa di concittadine iraniane che avevano protestato contro l’obbligo di portare l’hijab, il velo islamico, oltre alla sua aperta opposizione alla pena di morte. La condanna in primo grado è stata resa nota il mese scorso, ma in realtà Nasrin Sotoudeh è detenuta dal giugno del 2018 per altre accuse e sta già scontando una condanna a 5 anni, inflittale dal tribunale rivoluzionario di Teheran per spionaggio. Vincitrice del Premio Sakharov per la libertà di pensiero – assegnato dal Parlamento Europeo – nel 2012, l’avvocata detiene ora un amaro primato, secondo l’organizzazione per la difesa dei diritti umani Amnesty International, che denuncia «la pena più severa comminata a un difensore dei diritti umani in Iran negli anni più recenti». L’avvocata, prima del suo arresto, si era espressa anche contro un nuovo codice penale che consente solamente a un ristretto numero di avvocati di rappresentare imputati di crimini contro la sicurezza nazionale.
In pratica, la lista degli avvocati disponibili è approvata dal Capo del potere giudiziario; gli imputati non possono rivolgersi a nessun altro. Per la provincia di Teheran, per citare l’esempio più clamoroso, gli avvocati approvati sono solo venti. La vicenda di Nasrine Sotoudeh rappresenta la punta di un iceberg imponente, poco noto all’opinione pubblica internazionale, fatto di continue e istituzionalizzate violazioni dei diritti da parte di Teheran.
Solo per citare il caso delle iraniane che rivendicano il loro diritto di indossare oppure no l’hijab, sono decine le attiviste arrestate e processate negli ultimi due anni. Fra di loro, Vida Mohavedi, che si tolse in pubblico il velo in segno di protesta nel dicembre 2017 ed è stata condannata, all’inizio di aprile, a un anno di prigione. Una settimana fa, poi, è stata arrestata Yasaman Ariyani, attivista 23enne di Karaj prelevata da casa sua di notte. Fermata anche la madre della giovane, “colpevole” di aver chiesto notizie recandosi nell’ufficio della procura a Teheran. È dalla fine del 2017 che la protesta contro un codice di abbigliamento penalizzante per le donne ha preso piede in Iran: le “Ragazze della strada della rivoluzione”, come sono conosciute le attiviste, non sono finora riuscite a convincere le autorità al dialogo. I Guardiani della rivoluzione iraniana accusano il movimento di spionaggio poiché si coordina con cittadine residenti all’estero, quali Masih Alinejad, attivista di Brooklin promotrice della campagna online dei “mercoledì bianchi”. Alcune delle donne arrestate, inoltre, si sono esposte in prima persona anche nelle manifestazioni anti-governative contro le difficili condizioni economiche in cui versa il Paese degli ayatollah.