Piita Irniq un anziano degli Inuit, ricevuto dal Papa in forma privata ieri. Fu strappato alla sua famiglia quando aveva 11 anni, nel 1958 - Molinari
«Da questo lato dormivano i miei genitori. Io ero in mezzo, poi c’era mio fratello e mia sorella e più tardi mio cognato. Su questa piastra mia mamma cuoceva la carne, con il fuoco alimentato dal grasso di foca».
Piita Irniq indica i diversi spazi all’interno della capanna di zolle d’erba, ossa di balena e pelli di caribù eretta sull’isola di Qaummaarviit, al largo di Iqaluit. Si trova all’interno di un sito archeologico, scavato cinque anni fa per portare alla luce i resti di una comunità Inuit e per ricostruire la case nello stile tradizionale del popolo indigeno. Irniq conferma che la riproduzione è fedele, e gli si può credere, perché in una casa così, su questa stessa isola, ha vissuto per 11 estati. D’inverno viveva in un iglù.
È qui che il piccolo Piita è stato prelevato da un sacerdote nel 1958, a 11 anni, per essere portato a una scuola residenziale a Chesterfield Inlet, sempre in Nunavut, quindi a un altro pensionato governativo a Churchill, in Manitoba. Nel corso degli 8 anni di scuola ha subito degli abusi sessuali.
Irniq, che è stato commissario del Nunavut, è uno dei pochissimi autoctoni invitati all’incontro privato che il Papa avrebbe avuto nel pomeriggio canadese (la tarda serata in Italia) a Iqaluit, a poca distanza dal Circolo polare artico.
Guardare gli scavi attraverso i suoi occhi trasforma mucchi di rocce anonimi in tombe o nascondigli per la carne, dove la cacciagione veniva lasciata per mesi. «D’estate pescavamo, in autunno seguivamo i caribù, in inverno cacciavamo le foche e in primavera le balene», racconta il 74enne mentre salta in modo sorprendentemente agile da una roccia all’altra. Poi spiega che per integrare la dieta a base di carne coglievano bacche e erbe, raccoglie un mazzetto di foglie e le offre. Sanno di lattuga e di limone.
Al pensionato questa conoscenza gli è stata inutile.
«Ci veniva detto che i nostri antenati erano selvaggi, barbari», ricorda. Una volta a scuola, gli è stata appesa al collo una busta che conteneva un numero: era lui. Il governo canadese aveva assegnato a tutti gli “eschimesi”, come li chiamava allora, una cifra per identificarli, perché non comprendeva i nomi nella loro lingua.
La separazione forzata dalla famiglia non era il primo intervento drammatico che Piita (poi divenuto Peter) subiva da parte del governo federale. L’estate precedente i gendarmi canadesi avevano radunato i cani da slitta di tutte le famiglie della regione e li avevano uccisi, per impedire agli Inuit di allontanarsi troppo durante la loro migrazione stagionale.
Piita trova ancora difficile parlare di quegli anni, durante i quali dice anche di aver imparato tanto e di aver conosciuto persone caritatevoli, ma non per questo serba rancore. Lo avrebbe sicuramente detto al Papa, nel porgergli un tamburo fatto con le sue mani. «Accetto pienamente le sue scuse – continua – ma per gli autoctoni vorrebbe dire molto se il Vaticano potesse indagare i religiosi sospettati di violenze e abusi nei confronti di bambini indigeni. E se la Chiesa ci aiutasse economicamente a tenere in vita le nostre lingue e la nostra cultura contribuendo a finanziare programmi di formazione per gli insegnanti Inuit. Ora non ne abbiamo».
Irniq è sicuro che la visita di Francesco avvierà un cambiamento. «Ci deve essere, perché tutti lo vogliono. Non abbiamo scelta. Dobbiamo prendere la strada della cooperazione e penso che vedremo presto degli atti concreti», dice.
La sua speranza, naturalmente, sono i giovani, che «vogliono riscoprire le loro tradizioni, che sono liberi dal risentimento, e che sono abituati a dire quello che pensano. Faranno tutto il necessario per essere ascoltati». Ma ha fiducia anche nella sua terra: «Il risorgimento della nostra cultura passa attraverso attraverso la cura della terra. I giovani hanno una forte sensibilità ecologica, che si sposa con il modo di vita tradizionale di comunione assoluta con la natura – conclude –. La terra sana, la terra riconcilia. È grazie alla terra, dove dopo otto anni sono potuto tornare, che ho potuto perdonare».