Mahammed Dajani Daoudi - Archivio
Le pareti lungo le tre rampe di scale che conducono all’ufficio sono tappezzate di fotografie. Ricordi personali e, al contempo, pubblici. Perché la storia dei Dajani Daoudi è intrecciata a quella di Gerusalemme: da generazioni la famiglia custodisce la tomba di David e la memoria di un pezzo della città, santa per tre religioni. La stanza è strapiena di libri. Sono ovunque, sugli scaffali, sui tavoli, sulle sedie. Volumi in arabo, in ebraico, in inglese. Molti sono studi sulla Shoah. «Poi le spiego», dice la voce gentile di Mohammed Dajani Daoudi mentre prepara il tè con i suoi modi raffinati e un po’ cerimoniosi da gentiluomo arabo. Dalla finestra, si vede Beit-Hanina, quartiere di Gerusalemme nuova, e il check-point. «Qui – racconta – è avvenuta la mia uscita definitiva dalla caverna». Chiama così il percorso cominciato vent’anni prima che l’ha portato ad abbandonare le posizioni estremiste della gioventù e ad abbracciare la moderazione. Wasatia, in arabo, come il movimento da lui fondato nel 2007 e che è riuscito a rompere alcuni dei tabù più resistenti per i palestinesi e gli israeliani. «Quello della Shoah, in primis. I palestinesi non vogliono sapere niente della persecuzione nazista in opposizione allo Stato ebraico. Senza, però, conoscere la loro storia di sofferenza, è impossibile capire gli israeliani. Per questo ho portato ad Auschwitz un gruppo dei miei studenti palestinesi dell’università di al-Quds. E per questo ho accompagnato una comitiva di giovani israeliani ai campi profughi di Betlemme».
Professor Dajani, che cosa ha visto da quella finestra di tanto importante?
Era un venerdì di Ramadan del 2006. Una folla di palestinesi attendeva al check-point per andare a pregare alla moschea di al-Aqsa. I soldati non volevano farli passare nel timore che fossero terroristi. Gli uni spingevano e gli altri li respingevano. Ho pensato: «Ora i militari apriranno il fuoco». Invece non è accaduto. Hanno, al contrario, chiamato dei bus e vi hanno fatto salire i fedeli dopo avere controllato i documenti. Entrambi avevano raggiunto l’obiettivo: l’esercito la sicurezza, i palestinesi la possibilità di pregare. Era l’esempio concreto della “via di mezzo” o Wasatia – un cammino di tolleranza, mitezza, compassione, accoglienza dell’altro – di cui parla il Corano.
Eppure tanti giustificano le proprie posizioni estremiste con il Corano...
Perché non lo conoscono. O ne manipolano i versi per far dire quello che vogliono. Come ho scritto nel libro “Wasatia”, il punto è interpretare il Corano secondo il suo spirito che è inclusivo e non esclusivo. Proprio leggendolo e studiando, ho compreso che la mia religione mi impone di credere nell’ebraismo e nel cristianesimo perché Abramo, Mosè e Gesù sono padri anche per l’islam. Dio – lo dice il Corano, non Mohammed Dajani – ha creato tutti gli esseri umani dunque la vita di ciascuno è sacra.
Da giovane è stato un radicale. Come ha scoperto la Wasatia?
Quando studiavo all’Università di Beirut, tra gli anni Sessanta e Settanta, militavo nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e facevo parte di una frangia intransigente, ostile a ogni forma di negoziato. Poi, negli anni in Usa e Gran Bretagna, ho scoperto il valore della democrazia. Così, tornato a Gerusalemme nel 1993, ho deciso di conoscere gli israeliani. Per questo ho iniziato a studiare la Shoah.
Che cosa ha imparato dalla Shoah?
È stata una tragedia per tutta l’umanità non solo per gli ebrei. Su questi ultimi, però, ha lasciato una ferita insanabile. Comprendere la loro sofferenza fino a sentirla sulla nostra pelle è il primo passo per darci una chance di convivenza. Auschwitz mi ha insegnato tanto. Per questo ho voluto portarci gli studenti nel 2014. E ho cercato di far sì che i giovani israeliani conoscessero il nostro dolore accompagnandoli nel campo profughi di Do Eshi, alle porte di Betlemme.
Come hanno reagito i ragazzi di fronte al campo di sterminio?
Uno mi ha detto: «Non mi rende meno nazionalista. Solo più umanista». Non dobbiamo smettere di chiedere la fine dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e la nascita di uno Stato palestinese. Ma dobbiamo farlo senza perdere l’umanità.
Crede ancora che sia possibile convivere?
Più che mai. Condanno con fermezza l’orribile massacro del 7 ottobre da parte di Hamas. Ma condanno anche la vendetta su Gaza. Se non lavoriamo per la pace, entrambi, se non coltiviamo la Wasatia, il nostro futuro sarà la guerra.