La libertà religiosa «deve diventare priorità alta dell’azione diplomatica europea», in un «complesso integrato che unisca politica estera per la sicurezza, politica per lo sviluppo, politica per le migrazioni». Un impegno su cui il nostro governo ha spinto «con grande insistenza» e che, la scorsa estate, ha visto la Ue recepire il tema della libertà religiosa «tra le linee di politica estera per la sicurezza», facendolo infine approdare alla scorsa Assemblea generale delle Nazioni Unite.Mentre, finalmente, Bruxelles si appresta a varare i finanziamenti – «ahimé, forse ancora non sufficienti» – per dare corpo a questa azione, e alla vigilia del
workshop internazionale organizzato domani alla Farnesina sul tema della libertà religiosa, il ministro degli Esteri Giulio Terzi fa il punto con
Avvenire su una questione che appare sempre più decisiva per la pace la stabilità mondiale.
Come, e perché, nasce l’iniziativa di domani?È un tema che da sempre è centrale nella politica italiana, per l’affermazione dei diritti dell’uomo, della persona, delle libertà individuali. Ma nel corso dell’ultimo anno, da un lato in conseguenza dei sommovimenti nell’area del Mediterraneo e dell’evoluzione di queste società verso nuovi assetti costituzionali, e, dall’altro, in presenza di situazioni terribili che hanno colpito comunità religiose di ogni appartenenza e di ogni fede negli ultimi sei-sette anni, ho ritenuto che l’azione della Farnesina dovesse essere molto più focalizzata sulle tematiche della libertà religiosa e della libertà di pensiero, di credo. In questo senso ci siamo mossi anche con molta concretezza, cercando di rispondere non soltanto nei confronti dell’opinione pubblica ma, anche, stimolando i governi dei Paesi, più colpiti da questi fenomeni. Per esempio per rispondere ai disastri creati da Boko Haram alle chiese cristiane nel nord della Nigeria, o agli episodi che abbiamo visto nel subcontinente asiatico, in India o in Pakistan, e ai fatti terribili che hanno colpito la Turchia, il Medio Oriente. Tutto ciò mantenendo una visione complessiva del problema, e rendendo chiaro che la nostra azione si rivolge all’educazione delle persone, soprattutto i giovani, a un’attività di scolarizzazione indirizzata a questi temi e al contrasto di tutte le fobie.
Ma crede che sia davvero possibile un visione d’insieme di questo problema? Le matrici di questi fenomeni, delle persecuzioni che lei ricordava, appare diversa, più politica che religiosa.La visione d’insieme credo sia necessario, fondamentale affermarla, sul piano dei principi riconosciuti dalle Nazioni Unite, come indirizzo dei percorsi di creazione delle nuove Costituzioni in Paesi che stanno attraversando delle grandi trasformazioni, per affermare i principi di libertà e tolleranza, declinati secondo le condizioni specifiche di ogni Paese. Poi, certo, ci dev’essere un’azione mirata sulle diverse aree geopolitiche e anche sulle manifestazioni particolari in cui si sono manifestati i tragici episodi di intolleranza che ricordavo prima: e allora il contrastare il fenomeno dell’intolleranza anticristiana e degli attacchi alle Chiese in Nigeria ha una connotazione diversa, e richiede degli strumenti diversi, da quelli che sono richiesti, per esempio, per contrastare l’antisemitismo e gli episodi crescenti che abbiamo visto purtroppo anche in alcuni Paesi europei.
Lei prima ha parlato di azione europea. La Ue, però, è sembrata essere piuttosto assente di fronte alle nuove persecuzioni.È vero, la Ue, su questo come, purtroppo, anche su altri temi, non è riuscita ad esprimere tutte le sue potenzialità. Io ho fatto degli sforzi considerevoli, insieme ad alcuni altri ministri europei come quelli di Francia, Spagna, Malta, Grecia, per muovere delle nuove linee guida a Bruxelles, che diano contenuti più cogenti ed efficaci all’azione e al servizio europeo per l’azione esterna, e stiamo cercando di far partire un quadro complessivo d’azione che spero potrà avvalersi delle risorse finanziarie, ahimé forse non sufficienti, che stanno per essere deliberate. Ma non c’è dubbio che questa azione sulla libertà religiosa deve diventare priorità alta dell’azione diplomatica europea.
Quanto pesa, su questa sorta di “impotenza” della Ue, il fatto che abbia rinunciato a riconoscere le proprie radici cristiane?È stata una grave occasione mancata. Ancora più inaccettabile se vediamo come in buona parte del mondo le costituzioni, anche quelle in via di formazione, siano proprio legate alle basi culturali, religiose di ogni Paese. Per questo viviamo una sorta di paradosso nel quale l’Europa, che ha delle potenzialità, soprattutto nel suo
soft-power culturale, per affermare attraverso la cultura la sua grande motivazione di dialogo, di tolleranza proprio attraverso queste radici cristiane, si trova a dover assistere dei percorsi di formazione costituzionale di Paesi dove è radicatissima la volontà di fare delle basi culturali e religiose dei punti di riferimento essenziali. Vero è che è un riferimento fondamentale per la nostra azione è di ottenere nei nostri interlocutori che nei loro regimi giuridici abbiano una visione
laica. Laica, però, nel senso di comprensione della necessità di ammettere religioni che non siano discriminate l’una dall’altra. E questa comprensione laica non è relativista rispetto all’
imprint culturale che deve invece essere la matrice di qualsiasi assemblea costituente.