venerdì 21 giugno 2024
I volontari pattugliano le strade, dirimono contese, presidiano le scuole. L'aspetto più inquietante sono le "milizie" aziendali che controllano la conflittualità sociale. E i lavoratori
Poliziotti cinesi in Piazza Tienanmen

Poliziotti cinesi in Piazza Tienanmen - ANSA

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Pantaloncini corti, t-shirt, scarpe da ginnastica d’ordinanza che li accomunano ai giovani di mezzo mondo così come la camminata, dondolante. Poi, dopo un gesto a metà tra l’esultanza di Cristiano Ronaldo e lo svolazzo di un mago, la trasformazione. I due ragazzi ora indossano una divisa nera, passo marziale, sguardo fiero. Il video che li pubblicizza esalta “lo spirito volontario di governo comunitario, giustizia, coraggio e dedizione" che li anima. Sono gli “Shangrao Vigilantes”, un gruppo di volontari che si auto-presenta come un “servizio” di supporto e integrazione alla polizia locale. Non sono i soli. Anzi queste “milizie” civiche stanno spuntando come funghi in tutto il gigante asiatico. E, come scrive ChinaFile, sono ormai ovunque. A guardia dei cancelli delle scuole. Agli angoli delle strade a pattugliare il traffico. Sul lungomare per prevenire annegamenti. Non solo: sono pronti a dirimere e mediare controversie locali, ad esempio liti tra condomini riottosi.
Il fiorire di queste “associazioni per la promozione della sicurezza” non è casuale, ma risponde alla volontà del Partito-Stato cinese “di coinvolgere i cittadini in un più ampio progetto di sorveglianza e controllo” capillare della popolazione. Dietro, insomma, c’è la mano addirittura del “lider maximo”, il presidente cinese Xi Jinping.

Già, nel 2013 i media ufficiali hanno rinverdito un vecchio concetto dell’arsenale ideologico di Mao, rimasto a lungo dormiente: “esperienza Fengqiao”. Durante la turbolenta lotta di classe degli anni ’60, Fengqiao, una città nella provincia di Zhejiang, “mobilitò” i residenti per affrontare i “nemici” al loro interno; questo spesso significava che le persone venivano "informate" su amici e familiari. Mao Zedong elogiò questo sforzo come un esempio della “partecipazione delle masse al lavoro generale di pubblica sicurezza”. “Quando Xi la invoca oggi, l’esperienza di Fengqiao riguarda meno i tradimenti intrafamiliari o la lotta di classe. Viene invece utilizzata per valorizzare il monitoraggio reciproco dei cittadini”, scrive ChinaFile. Insomma il Grande Fratello cinese sta allevando una frotta di fratellini, pronti a coadiuvare le forze dell’ordine nell’occhialuto lavoro di sorveglianza.

Ma l’aspetto più inquietante è un altro. E ha come “epicentro” le grandi aziende statali che, come ha scritto la Cnn, “stanno creando propri eserciti di volontari”, unità, denominate Dipartimenti delle Forze Armate Popolari, composte da civili che mantengono il loro lavoro regolare e in più si "offrono" alle imprese. Secondo Neil Thomas, analista di Asia Society, l’iniziativa coniuga l’ossessione tutta cinese per “la sicurezza nazionale” con la preoccupazione innescata dal rallentamento dell’economia del gigante asiatico e le ripercussioni sociali che questa potrebbe generare. “Le milizie aziendali potrebbero aiutare il Partito comunista a reprimere i disordini sociali come le proteste dei consumatori e gli scioperi dei dipendenti”, ha spiegato l’esperto.

Perché, a dispetto delle narrazioni pacificate dei media ufficiali, sotto la pelle del gigante asiatico brulica l’insoddisfazione. E la protesta. Un dato su tutti. Il numero di scioperi e di manifestazioni che hanno punteggiato la vita lavorativa è salito a 1.794 lo scorso anno, più che raddoppiando rispetto al 2022, quando furono registrati “soltanto” 830 casi, secondo i dati raccolti dal China Labour Bulletin, un’organizzazione no-profit con sede a Hong Kong che monitora le proteste dei lavoratori.
I settori più “inquieti” sono quello manifatturiero, dove sono stati registrati 438 eventi nel 2023 (37 l’anno precedente) e, soprattutto, quello edilizio, che conta un “esercito” di 50 milioni di lavoratori: con l’aggravarsi della crisi nel mercato immobiliare, gli investimenti si sono contratti di quasi il 10% rispetto all’anno precedente e le nuove costruzioni sono diminuite del 40%.
Pechino sta facendo i conti con un qualcosa che, nei decenni passati, ha fatto la sua “fortuna”, trasformando la Cina nella “fabbrica del mondo": la delocalizzazione. Solo che questa volta la colpisce anziché favorirla. Le fabbriche si stanno spostando all’estero, o nell’entroterra, verso regioni più economiche, causando dei veri e propri terremoti sociali.

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