n questo modo, forse un po’ rudimentale ma efficace, un giovane farmacista della capitale Sanaa si protegge: nel resto del Paese però le misure di distanziamento e i dispositivi anti-Covid sono di fatto inesistenti - Ansa
«Forse si è dimenticato di noi, come succede sempre, ma questa volta per lo Yemen venire ignorato è un bene». È quello che ha pensato, nelle prime fasi della pandemia, il dottor Ammar Derwish, 32 anni, al lavoro come medico a domicilio ad Aden, la sua città. Lo ha pensato e lo ha scritto in un diario, vedendo soccombere di fronte al virus uno dopo l’altro tanti Paesi, mentre nel suo ancora non si registravano casi.
È stata solo questione di tempo: a maggio la situazione è precipitata a tal punto che attorno a lui le persone «cadevano una a una, come nel domino». Il suo racconto quotidiano della prima ondata è dettagliato e appassionato, frutto di centinaia di annotazioni prese al volo sul cellulare, dopo le visite nelle case, prima in arabo poi in inglese perché «era più semplice esprimere in un’altra lingua quello che sentivo, come se a scrivere non fossi io». Il diario, pubblicato online dalla testata The New Humanitarian e selezionato tra 400 candidature, si è aggiudicato il Coronavirus reporting award dell’organizzazione One World Media di Londra.
È la descrizione della spirale della pandemia nel suo quartiere, al-Buraiqa, tra i meno affollati di Aden e per certi aspetti tra i più benestanti. La città portuale, 900mila abitanti, è la capitale provvisoria del governo sostenuto dalla coalizione a guida saudita che combatte dal 2015 contro il movimento degli Houthi, allineato con l’Iran. Sei anni di guerra hanno spinto l’80 per cento della popolazione a dipendere dagli aiuti in quella che per l’Onu è la peggiore crisi umanitaria al mondo. Qui il Covid-19 ha fatto la sua apparizione ad aprile. Maggio e giugno hanno visto il picco dei casi, in minima parte intercettati dalle statistiche ufficiali. In quei mesi ad Aden due ospedali si occupavano dei contagi, l’al-Amal Medical Center e l’al-Jamhouria, passati sotto la gestione di Medici senza frontiere (Msf) che il 21 maggio denunciava una «catastrofe sanitaria» in città. «Non riesco a tenere il conto di quante persone che conosco si siano ammalate. Il mio telefono non smette di squillare, chiedono consigli o che vada a visitarli. Sono troppi», scrive il dottor Derwish il 6 maggio.
Amici, parenti, persino sconosciuti bussano alla sua porta, fra le mani radiografie ed esami. «Nessun giorno si conclude senza qualche tragica notizia e navigare sui social media è ormai come leggere i necrologi», sottolinea. Muoiono la vicina di casa infermiera, il tassista della zona, due ex professori dell’università, una lunga serie di padri e madri di suoi amici. Il racconto della raffica di contagi a cui assiste, anche solo nella piccola cerchia del quartiere, somiglia nei toni, nel ritmo inarrestabile e nel senso di impreparazione, alle tante testimonianze di chi, a latitudini diverse, ha vissuto la stessa esperienza. Rievocano le testimonianze ascoltate durante la prima ondata in Lombardia, in provincia di Bergamo o a Codogno: ospedali al collasso, numero di casi (e di morti) sottostimato, cimiteri a pieno regime e la stessa, straniante, sensazione di venire privati troppo in fretta di affetti e legami. Sembra quasi di vedere la macabra sfilata dei camion militari mentre portano via le bare perché nei cimiteri bergamaschi non c’è più posto. Si ammalano a turno i suoi fratelli, muore uno zio, viene contagiato lui stesso: «Bere è come inghiottire lame o pezzi di vetro. Sento un odore costante come di vernice», racconta. «A volte è come se stessi affogando, come quando l’acqua ti entra nel naso mentre nuoti». Alla fine, si ristabilisce.
Oggi in Yemen la presa fatale del virus sembra essersi allentata, tanto che i progetti Covid di Msf ad Aden sono chiusi per calo di casi: «Non c’è nessuna seconda ondata qui. Negozi e ristoranti sono aperti, peraltro come accadeva nei mesi più duri», ci dice il dottor Derwish. «Qui non esiste uno Stato forte, non c’è organizzazione, è lo stesso nelle aree controllate dagli Houti. Imporre lockdown e coprifuoco è molto difficile». Quando chiediamo se non tema una recrudescenza del contagio, il medico risponde: «Quando il virus ha attaccato in aprile, è come se tutti avessimo dovuto affrontarlo, come se ciascuno fosse già stato esposto. Comunque, tra i mesi di picco e oggi, davvero, non c’è paragone».