Assisteremo a un trasferimento del Daesh dal Medio Oriente verso il Sudest asiatico? Secondo alcuni analisti, probabilmente sì. Il Califfato è sottoposto a forti pressioni nei suoi feudi tradizionali in Siria e Iraq. Proprio ieri è arrivata la notizia, da fonti militari Usa, dell’uccisione a Raqqa, in un raid, di Boubaker el Hakim. L’uomo era stato il mentore, dei fratelli Said e Sherif Kouachi, autori della strage a Charlie Hebdo. Di fronte all’offensiva, il Califfato medita di spostare la sua area di influenza verso l’Estremo Oriente. Primo passo in questa direzione sarà la prossima proclamazione di una nuova “Wilaya” (provincia) nell’isola filippina di Mindanao, per compensare le perdite subite dai jihadisti nei territori “metropolitani”.
Secondo Otso Iho, esperto del Centro Internazionale per l’analisi del terrorismo ( Jtic), la scelta di Mindanao è dettata non solo dalla presenza sull’isola di diversi gruppi islamici militanti che hanno giurato fedeltà al Califfo. A questo si aggiunge il fatto che essi «sono ancora in grado di operare con una certa libertà, di avere campi di addestramento e spesso effettuare attacchi». «Tale livello di illegalità – spiega l’analista – e la difficoltà per le forze dell’ordine e le istituzioni pubbliche di controllo di questo spazio rende il luogo più probabile» come sede della nuova “provincia”. Le Filippine assistono, già da diversi mesi, a una recrudescenza degli attentati, “firmati” dall’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi.
Solo pochi giorni fa, due filippini sono stati bloccati dalla polizia di Manila con l’accusa di aver progettato un attacco in un parco della capitale, vicino all’ambasciata statunitense. I due arrestati sono stati presentati alla stampa come membri di un piccolo gruppo islamico chiamato Ansar al-khilafa, i Partigiani del Califfato.
Secondo la polizia filippina, gli arrestati intendevano farsi notare dal Daesh per ricevere finanziamenti. Ma l’attesa proclamazione di una provincia del gruppo terroristico nelle Filippine rimanda a un gruppo molto più noto all’estero: quello di Abu Sayyaf. Le prime conferme circa una connessione tra Abu Sayyaf e il Daesh arrivano già nell’estate del 2014 in un video in cui appaiono diversi miliziani della formazione filipppina con bandiere e armi. Il filmato mostra poi diversi leader del gruppo mentre giurano fedeltà al Daesh. Tra questi c’erano i capi dei “battaglioni” Abu Dujana, Abu Khubaib, Jundallah e Abu Sadr.
La conferma di adesione al Daesh arriva, però, solo nel giugno scorso, ma senza la proclamazione di una nuova provincia. Il leader di Abu Sayyaf, Isnilon Hapilon (alias Abu Abdullah al-Filipini) viene indicato come «emiro» e «il mujahid autorizzato a guidare i soldati dello Stato islamico nelle Filippine». Nel frattempo, il gruppo moltiplica attentati e altre dimostrazioni di forza, tra cui anche la decapitazione di due ostaggi canadesi, John Ridsdel e Robert Hall. Secondo Long War Journal, vari gruppi fuori dagli accordi di pace tra Manila e il Moro Islamic Liberation Front (Milf), il principale gruppo separatista di Mindanao, si sarebbero avvicinati negli ultimi mesi al Daesh. Tra questi, il Moro National Liberation Front (Mnlf), la formazione comunista New People’s Army (Npa), Ansar Khilafah nelle Filippine, lo Stato Islamico in Lanao, Jamaat al-Tawhid wa al-Jihad (ex al-Qaeda) e le frange più radicali del Milf. Il governo di Manila non sta certo a guardare.
Le forze dell’ordine hanno annunciato nuove misure antiterrorismo, che prevedono maggiori controlli di sicurezza e possibili raid contro militanti. Dal canto suo, il presidente Rodrigo Duterte moltiplica gli avvertimenti. Nell’ultimo – che risale alla metà di novembre – il leader ha parlato esplicitamente del rischio di un “trasloco” del Daesh nelle Filippine. «Una volta che i terroristi del Medio Oriente saranno privati del loro territorio – ha detto Duterte – essi vagheranno verso altri luoghi e verranno qui». «Dobbiamo prepararci per questo», ha poi aggiunto, precisando che non intende, nella sua programmata lotta contro i terroristi, sentire evocare i diritti umani. «Non permetterò che la mia gente sia macellata in nome della tutela dei diritti umani».