martedì 2 gennaio 2024
Da 25 anni i bambini del campo profughi di Aida alla periferia di Betlemme vengono educati alla cultura e all'arte in alternativa alla violenza. Ma la situazione umanitaria è durissima.
Immagini di devastazioni a seguito di un blitz aereo nella strisca di Gaza

Immagini di devastazioni a seguito di un blitz aereo nella strisca di Gaza - Ansa

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La parete è coperta di foto. Il volto sorridente di Nelson Mandela sovrasta quello di Muhammed Ali. Ci sono scrittori, artisti, pensatori. Uno scatto ritrae Benedetto XVI durante il viaggio del 2009. «Sì, quello che gli stringe la mano sono io. E sono io anche questo», dice Abdel Fattah Abu Srour, mentre indica l’immagine appena sotto. «Ho accolto papa Francesco nel 2014. Quel benvenuto mi è costato due anni di interdizione da Gerusalemme. Che cosa gli ho detto? Beh, l’ho ringraziato di essere venuto in una terra sotto occupazione. Le autorità israeliane non devono avere gradito. Così, ho dovuto fare una causa legale per poter entrare di nuovo a trovare mia moglie che, all’epoca, risiedeva là», dice come se fosse un normale disguido burocratico Abdel. «Beh se prendi le cose troppo sul serio non reggi da queste parti». “Queste parti” è Aida, un’enclave di 0,7 chilometri quadrati alla periferia di Betlemme. Là 6.200 persone abitano in uno spazio pensato per un migliaio, nell’attesa del ritorno a un luogo che i due terzi dei residenti non hanno mai conosciuto. Perché non hanno ancora compiuto 24 anni. Quarantanove in meno di Aida dove i nonni si rifugiarono da 43 diversi villaggi dopo la nascita di Israele e la guerra del 1948. La memoria di quella migrazione forzata si rinnova, però, generazione dopo generazione, mentre le tende e i prefabbricati sono stati sostituiti da case in muratura e il campo profughi è diventato un quartiere popolare. La si ritrova addirittura scolpita, all’entrata, nella sagoma di una grande porta nera sormontata da una chiave. Quella delle case perdute ma non lasciate.

“Aida” del resto significa “colei che spera di rientrare”. Per i nati e cresciuti in questo luogo, in realtà, sarebbe già un traguardo potersi spostare liberamente. Scavalcare il muro. La barriera, insieme medievale e high tech, che, con le sue sette torri di vigilanza, dal 2002, sigilla il confine settentrionale dell’enclave e del resto di Betlemme. Trasformando in una ginkana di almeno un’ora i meno di 8 chilometri che la dividono da Gerusalemme. Uno studio dell’Università di Berkeley, dell’agosto 2017, ha documentato la «sistematica» esposizione degli abitanti a gas lacrimogeni impiegati dall’esercito dello Stato ebraico. Dal 7 ottobre – sostengono i residenti – lo scenario è peggiorato. Le incursioni dei militari a caccia di presunti sostenitore di Hamas sono costanti, anche se meno violente rispetto a Jenin o Tul Karem. L’ultima è stata esattamente una settimana fa. «Cinquanta persone del campo sono state arrestate. Quindici sono miei parenti. Tutti sono dentro senza accuse formali, detenzione amministrativa», dice Abdel. Il 20 dicembre è stato catturato Munther Amira, uno dei più noti attivisti nonviolenti palestinesi. «Entrano nelle case, frugano, rompono, portano via le persone. Di fronte a questi abusi continui, alle umiliazioni, le persone possono reagire in vari modi. Alcune, non tante, prendono un’arma. Altri si sfogano dipingendo, suonando, scrivendo. Noi vogliamo fare sì che questi ultimi siano sempre di più». Per questa ragione, 25 anni fa, Abdel e un gruppo di amici hanno creato Alrowwad, “i pionieri”. «Volevamo e vogliamo dare ai bambini la possibilità di esprimersi attraverso il teatro, la fotografia, la pittura, la musica, lo sport. Di vivere per il loro Paese e non solo di morire. Lavoriamo con le scuole e con le famiglie e teniamo dei corsi e laboratori dopo le lezioni in cui promuoviamo la “resistenza della bellezza”. La cultura e l’arte sono le nostre armi contro la bruttezza dell’occupazione».

Mentre parla, nello studio arriva Milad, 26 anni, uno dei volontari. Da due anni, due volte alla settimana, il giovane si reca dal centro di Betlemme al campo e al centro di Alrowwad per insegnare la chitarra ai ragazzini. «So che rischio di trovarmi nel mezzo di un raid israeliano – afferma –. Ma non voglio lasciarli ora che la situazione è tanto difficile». Alla stretta sulla sicurezza si somma l’aumento della povertà. Prima del conflitto, il tasso di disoccupazione di Aida sfiorava il 60 per cento. Ora altre cinquanta famiglie, che lavoravano a Israele, hanno perso l’impiego perché non possono raggiungerlo. Dal 7 ottobre, la Cisgiordania è isolata e i permessi di entrata di quasi 200mila palestinesi sono stati congelati. Un colpo durissimo per l’economia dei Territori. I transfrontalieri sono il 22 per cento della forza lavoro. E i loro stipendi – il salario minimo israeliano è quasi quattro volte quello cisgiordano – alimentano una serie di settori vitali soprattutto nelle aree più povere. Come i campi profughi. «Oltretutto le famiglie hanno pagato circa 600 euro per avere un lasciapassare di tre mesi. E si sono ritrovate senza soldi e senza lavoro», sottolinea Abdel. Con il turismo in panne – da cui dipendono per un terzo gli introiti di Betlemme – difficilmente potranno trovarne un altro nel breve periodo. «Come faccio? – domanda Soha, il cui marito ha perso l’impiego di imbianchino a Gerusalemme –. Finora ci hanno aiutato le mie figlie, ma non so quanto potremo andare avanti. Tanti vicini hanno dovuto indebitarsi». «Tutto questo alimenta la rabbia – conclude Abdel –. Aida è una pentola a pressione. Per questo, Alrowwad non può fermarsi ora. Senza sogni, pensiero, poesia, la realtà diventa insostenibile».

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