La Chiesa continua a sostenere la causa della giustizia e dell’unità in un’India attraversata da divisioni e ingiustizie, da tensioni interreligiose un tempo controllate e sanzionate da governi laicisti, ma che da un quinquennio sono alimentate dal potere politico connesso alle forze estremiste dell’induismo. In un documento diffuso due giorni fa, i vescovi, pastori di oltre 20 milioni di cattolici, hanno detto la loro su discriminazioni estese e radicate che solo al tempo del voto riappaiono nei programmi politici. «Le minoranze dovrebbero essere tutelate, e nessuno costretto a dimostrare i propri sentimenti di fedeltà alla patria», hanno indicato, sottolineando che «il nazionalismo è nel sangue di ogni indiano, che appartenga a una minoranza o meno».
Nell’invitare il governo a promuovere la diversità e non l’uniformità, il testo predisposto da padre Joseph Manipadam, segretario dell’Ufficio per l’Educazione e la Cultura della Conferenza episcopale indiana chiede una particolare attenzione per le condizioni di vita dei dalit, dei tribali, degli emarginati e dei poveri, ma sollecita anche l’impegno a garantire l’uguaglianza delle fedi in un Paese tradizionalmente “plurale”, dove, sottolineano i vescovi nel documento, «deve essere difeso il diritto costituzionale a praticare, pregare e diffondere la propria religione».
Il documento è stato elaborato in risposta all’invito del filo-induista Bjp alle minoranze affinché esprimessero suggerimenti e proposte riguardo una discriminazione dai molti volti ma perlopiù giustificata dagli estremisti indù come funzionale alla società indiana. La risposta delle componenti minoritarie della società è stata al centro di un apposito incontro il 7 marzo nella capitale New Delhi. Tra le proposte portate dai cattolici, «che restano aperti a ogni verifica e suggerimenti da parte della politica filo-induista», anche l’estensione dei benefici per i gruppi meno favoriti ai dalit convertiti alla cristianità, parte di 200 milioni di individui che ancora soffrono consistenti discriminazioni.
Si avvicina la lunga tornata elettorale indiana, un calendario che per sei settimane, a partire dal 17 aprile, porterà al voto 900 milioni di aventi diritto per confermare la preferenza per i nazionalisti al potere, guidati dal Bharatiya Janata Party (Bjp) del premier Narendra Modi, oppure affidarsi alle opposizioni. Sia quella rappresentata dal Partito del Congresso guidato dalla dinastia Gandhi e al potere quasi ininterrottamente dall’indipendenza fino al maggio 2014, sia quella di outsider della politica al femminile che in Stati importanti sfidano il Bjp e i suoi alleati alla guida di forti movimenti locali.
«I linciaggi nel nome delle pratiche religiose diverse, delle abitudini alimentari, e delle differenze culturali hanno intaccato la credibilità del governo, e fatto sentire minacciate le minoranze», hanno anche ricordato i vescovi al partito di governo. Un riferimento alla “guerra delle mucche”, ovvero la proibizione dell’uccisione dei bovini e della commercializzazione delle loro carni e degli altri prodotti frutto della macellazione, tradizionalmente appannaggio di gruppi minoritari a partire dai musulmani. Una proibizione implementata con la forza in molte regioni da parte dell’estremismo induista, che ha portato a decine di morti, devastazioni, l’uscita dal mercato del lavoro di milioni di individui, ma anche alla messa in ginocchio di uno dei maggiori settori del commercio dell’export.