La voce è rotta dall’emozione, scartavetrata dal rimpianto, dal lutto, dalla fragilità. Dal dolore che non è di un uomo solo ma di un’intera nazione che, vent’anni dopo, si è fermata ancora una volta per guardare in faccia la ferita dell’Undici settembre. Bruce Springsteen a Ground Zero ha intonato I’ll See You In My Dreams, brano che chiude Letter To You, l’ultimo album registrato in studio dal cantante che più di altri si è incaricato di testimoniare l’anima ferita e oscura - ma anche l’orgoglio mai tramontato - dell’America. Con I’ll See You In My Dreams, Springsteen ha portato il suo Paese sul labile, sfumato, incerto confine tra la vita e la morte. Nel canto spezzato di Springsteen, intenso come una preghiera, ci sono i ghosts, i fantasmi di chi è morto in un giorno assolato di settembre. Ma, dinanzi al vuoto, alla voragine, «la morte non è l’ultima parola», ha cantato. La morte non chiude la partita, non esaurisce la corsa, non ferma la musica. Accanto ad essa, c’è il desiderio di trascenderla.
Il fantasma della morte torna ossessivo nella produzione di Springsteen. Affiora nella maturità e diventa - lentamente e ineluttabilmente - onnipresente. L’intera produzione del rocker americano sembra essere una lunga elaborazione del lutto, consegnandoci un confronto continuo, lacerante con la morte. Una “presenza” diventata sempre più familiare, intima, vicina. In High Hopes è il brano The Wall a dare voce alla presenza della morte. C’è un uomo davanti a un monumento – altra ferita dell’identità americana, il Vietnam -, c’è il tempo che lavora i vivi quanto i morti: “Se i tuoi occhi potessero bucare la pietra nera/ dimmi riusciresti a riconoscermi?”.
Anche in Wrecking Ball Springsteen è fermo davanti a quel muro, mette un suo personaggio, in quella specie di Spoon river che è We’re alive, in un cimitero. Le voci che si sollevano sono quelle dei morti, voci che non si rassegnano, voci che sibilano la certezza di essere vivi. Tra i vivi e i morti c’è una fratellanza che nessuna comunità può ignorare. E nella melvilliana (e biblica) Swallowed Up (In The Belly of The Whale) – la più emozionante e dimenticata delle canzoni di Springsteen – tra il cupo rumore delle onde che si infrangono e le campane a morte, il marinaio smarrito nella terra dei morti alza il suo inno dalle viscere del mostro. E se tutto Wrecking Ball fruga dentro l’ombra del rimpianto, altre perdite affollano il repertorio del rocker. Come in The Last Carnival, altro lamento in onore dell’amico scomparso dove, ancora una volta, la morte si tramuta in canto, il canto in inno, e nel canto si ritrovano “tutte le anime dei vivi e dei morti raccolte da Dio”. E, ancora, nella struggente Terry’s Song, Springsteen sussurra “che l’amore è più forte della morte”.
Altre morti, altri dolori, altri lutti, altre scomparse. Impossibile nominarle tutte. Nell’album Magic, fanno capolinea il motociclista girovago di Gypsy Baker che torna in una bara, c’è la morte che incombe in Devil’s Arcade, la malattia in I’ll Work For Your Love, sangue e cuori spezzati danzano in Last To Die. In Lucky Town i morti occupano per la prima volta la scena in Soul Of The Departed. C’è il piccolo Rapahel Rodriguez ucciso a 7 anni, il tenente Jimmy Bly, “con l'incarico di badare ai vestiti dei soldati morti”: dinanzi alla morte il protagonista del brano alza il suo lamento, la sua preghiera, preso dal desiderio di costruire un muro attorno alla vita delle persone che ama. Un figlio fa i conti con la morte della madre e con il ricamo dell’assenza in Silver Palomino. Il corpo del clandestino, a cui Bruce presta il suo canto funebre, di Matamoros Banks è straziato dalla corrente, reso irriconoscibile dalle acque che lo inghiottono. Ma la morte domina anche in Devils And Dust – questa volta sorpresa dalla parte di chi imbraccia il fucile, così come gronda morte e violenza The Ghost Of Tom Joad e il suo fratello maggiore, quell’ormai lontano, glaciale, urticante paralizzante Nebraska, dove si uccide per disperazione, si uccide per vedere che effetto fa, si uccide per punire e si uccide per giudicare.
Ma è in The Rising, scritto dopo l’11 settembre, che quel legame con la morte occupa il centro poetico della produzione di Springteen. The Rising è un lungo lamento sull'America ferita in cerca di catarsi. Tutto qui è permeato dal senso incombente della tragedia. Le parole chiave sono fuoco, polvere, sangue. Il cielo torna in maniera quasi ossessiva. Il cielo è “striato di sangue”, è “vuoto”, è “di nera cenere”, il cielo è di “dolore e angoscia”. Tutti gli elementi sembrano partecipare della tragedia e del manifestarsi del male. “La luna è insanguinata”, “la stanza brucia”, “la vipera striscia nel giardino”, “il diavolo si è infilato nella cassetta delle lettere”, “il diavolo spunta all’orizzonte”. “Il sangue invade le strade”, “il sangue piange dalla terra”. La vita è ridotta ad “una nuvola di vapore rosa”, “la chiesa è vuota”. Ma alle immagini di morte, di violenza, di vuoto Springsteen contrappone le parole amore, resurrezione, fede, forza.
Il protagonista di The Rising è un pompiere. L’uomo sale con un macigno sulle spalle, ha perso la sua strada nell’oscurità per quanto è salito, non riesce a vedere nulla davanti a sé e niente alle sue spalle, non sente nulla se non la catena che lo lega. Incrocia facce annerite, occhi che bruciano. Si imbatte in spiriti: sono “sopra e dietro” di sé. Il nominare gli spiriti indica qui la frattura dalla realtà. Siamo ancora in questa vita? Nell’altra? Sono persone vive? Sono anime? Quello che è certo è che siamo ormai in un’altra dimensione. Il protagonista di Springsteen sosta davanti “alla luce incandescente del Signore”.