Il campo profughi di Diavala, 12 km da Salonicco - F.G.
Lockdown selettivi, prolungati all’infinito, e misure anti-Covid utilizzate per limitare gli spostamenti dei migranti: i mesi di pandemia in Grecia non hanno provocato solo esasperazione e atti di ribellione estrema, come nel caso dei roghi appiccati a Lesbo.
Nel nord del Paese, il coronavirus è stata l’occasione per rispedire indietro, in Turchia, un alto numero di persone, di nascosto o quasi, in spregio ai principi più basilari del diritto di asilo. Secondo numerose testimonianze, le autorità sarebbero andate oltre i semplici respingimenti al confine e avrebbero operato espulsioni di gruppi di migranti fin dalla zona di Salonicco, che dista 350 chilometri dalla frontiera turca.
Il campo profughi di Diavala, 12 km da Salonicco - F.G.
«Quando è cominciato a circolare il coronavirus, per noi è stato un grande problema», racconta Mohammad, pachistano di 33 anni. Lo incontriamo a Diavata, campo gestito dal ministero della Migrazione a 12 chilometri da Salonicco, 150 container e diverse tende tra capannoni industriali e terreno brullo. «Da qui molte persone sono state riportate indietro, ragazzi arabi, asiatici, non famiglie. Una mattina di aprile stavo dormendo nella mia tenda e la polizia è arrivata. Mi hanno caricato su un camioncino con il logo della polizia. Mi sono ritrovato in Turchia. Non è capitato solo a me, saremo stati in 30. Durante il lockdown accadeva ogni settimana».
Snodo significativo tra Turchia e isole greche ad est e a sud, e con la Macedonia e l’Albania a nord, Salonicco è dal 2015 tappa obbligata della rotta balcanica. «La pratica dei respingimenti fino a tempi recenti era esercitata solo al confine con la Turchia, o poco all’interno», spiega Alexandra Bogos di Mobile Info Team, Ong che fornisce supporto ai migranti. «Questa era pratica abituale fino a fine marzo, quando improvvisamente ci è giunta notizia che le persone venivano rimosse da Diavata dove nelle tende vive gente non registrata, lì per usufruire di docce e bagni del campo. Non abbiamo idea di quanti casi siano avvenuti, ma credo di non esagerare se dico migliaia».
Il campo profughi di Diavala, 12 km da Salonicco - F.G.
Una conferma arriva anche da Rose Hansen di Medical Volunteers International: «Durante il lockdown hanno cominciato a respingere persone in grandi quantità, hanno utilizzato il coronavirus per rimandare indietro gruppi numerosi. I respingimenti sono stati denunciati dalle Ong ma ancora oggi si verificano, pur in dimensioni più contenute. Prima di essere rimandati in Turchia, i migranti vengono privati di telefoni, soldi, talvolta delle scarpe».
Vittime dei respingimenti sono soprattutto giovani soli: «Ragazzi single che non hanno possibilità di entrare nei meccanismi di accoglienza classici, di solito di nazionalità afghana, pachistana, marocchina... Sono persone che non hanno documenti o li hanno scaduti» spiega Hope Barker di Border Violence Monitoring Network. Questa rete, a inizio settembre, ha presentato un rapporto su quanto accade in Grecia di fronte alla 19esima sessione del Comitato Onu per le vittime di sparizione forzata. La scadenza di molti documenti di soggiorno temporaneo (chiamati 'Khartia') sono conseguenza della chiusura per Covid degli uffici d’asilo. Yousef, 22 anni, anche lui pachistano e respinto da Diavata, poi ritornato qui, ci tiene a mostrare le prove. Ci incontriamo ai margini del campo, dietro un container. La sua prima registrazione è dell’8 gennaio. Aveva ottenuto la Khartia per un mese. Mostra il promemoria per l’appuntamento di rinnovo fissato al 16 marzo. «Ho trovato gli uffici chiusi per il Coronavirus. Una mattina di fine maggio ero al campo per la doccia. I poliziotti mi hanno chiesto i documenti, ma erano scaduti. Mi hanno detto di seguirli, li avrebbero rinnovati. Dicono sempre così. Si sono presi il mio telefono e il portafogli con 64 euro. Mi hanno caricato su un van, su cui abbiamo viaggiato per 5-6 ore, fino al fiume al confine. Ce lo hanno fatto attraversare». Yousef ora non vede l’ora di proseguire il suo viaggio, di lasciarsi la Grecia alle spalle. Mohammad è d’accordo con lui: «Quando sono arrivato i miei capelli erano neri» ci dice. «Guarda adesso, qui davanti sono bianchi».