lunedì 30 settembre 2024
Fallita o quasi la strategia delle milizie che combattono conto terzi (Hamas, Hezbollah, Houti) Teheran si ritrova in prima linea. Con l’economia giù e l’opposizione interna più forte
Una folla immensa a Teheran piange commemora la morte di Nasrallah

Una folla immensa a Teheran piange commemora la morte di Nasrallah - Reuters

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In quanti, anche solo poche settimane prima della caduta del Muro e dell’«impero esterno» sovietico, avrebbero predetto gli eventi di Berlino e il successivo sgretolamento dell’Urss? Non siamo ancora forse a quel livello di profondità, eppure gli attacchi condotti negli ultimi mesi da Israele, non ultima l’uccisione di Hassan Nasrallah a Beirut, hanno avuto come conseguenza non solo la decapitazione della milizia sciita, ma anche la messa a nudo di chi, quella milizia, l’ha ampiamente sostenuta e armata: l’Iran.

Sono giorni duri a Teheran, giorni in cui ci si chiede non tanto e non solo come colpire il nemico di sempre, ma come apparire, agli occhi del mondo e soprattutto della regione, ancora il leader territoriale in grado di spostare equilibri. Perché in poco tempo tutto -sembra essersi capovolto.

La tattica iraniana di circondare Israele sostenendo milizie “proxy” – Hamas nella Striscia di Gaza, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen – facendo «sanguinare poco a poco» il nemico sta rivelando la sua debolezza. Soprattutto nel momento in cui Israele ha cambiato la sua, di tattica, da operazioni di “pulizia” in territorio nemico e ritorno, a una mossa che nel poker si definirebbe un “all in”: un attacco ormai senza remore su vasta scala contro Hamas prima, Hezbollah ora e, chissà, in territorio iraniano poi. Così Teheran, che era pronta a sacrificare fino all’ultimo libanese, fino all’ultimo yemenita contro Israele, si ritrova ora in prima linea e con il cerino in mano, con le stesse milizie sue alleate sanguinanti e indebolite.

Con un’economia sfibrata da anni di sanzioni per il suo programma nucleare, isolato a livello internazionale, con un’opposizione interna che si fa sempre meno remore nel proporsi per il cambiamento, il regime iraniano cerca in queste ore di capire come adattare la sua strategia davanti ai successi di un nemico che può comunque contare, al di là dei distinguo e di dichiarazioni di prammatica, sul solido sostegno americano. Un sostegno che non potrebbe che aumentare ancora davanti a uno scenario di scontro aperto, scontro che Teheran peraltro non potrebbe reggere né a livello di intelligence né a livello militare e che finirebbe solo con il rendere ancora più evidente la sua debolezza. Allo stesso tempo, però, il regime non può solo continuare a subire, pena l’accelerazione di quello sgretolamento che molti analisti hanno già intravisto dietro alle operazioni israeliane a Beirut e alla morte a Teheran dell’ex leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che sarebbero state favorite anche da qualche compiacenza dei Pasdaran iraniani.

«I governi del Libano e della Palestina hanno la capacità e il potere di affrontare l’aggressione del regime sionista, e non c’è bisogno di schierare forze ausiliarie o volontarie iraniane», si è affrettato a precisare il portavoce della diplomazia iraniana, Nasser Kanani. Una dichiarazione che, più che indicare certezze, sembra al contrario rafforzare la necessità di prendere tempo. La scia di umiliazioni subite dal regime degli ayatollah comincia ad essere troppo lunga. Ad aprile, Israele bombardò il compound dell’ambasciata iraniana a Damasco, in Siria, uccidendo tre alti comandanti iraniani. La risposta militare di Teheran – 300 droni e razzi verso il territorio israeliano – fu poco più che simbolica, con danni minimi per il nemico; la controreplica di Israele, un attacco che riuscì con facilità a eludere le difese aree iraniane, mandò un messaggio chiaro: Israele può colpire direttamente l’Iran, l’Iran farà fatica a colpire Israele.

Per settimane si è parlato di una “retaliation”, della ritorsione iraniana che consentisse al regime di salvare la faccia e approfittare anche delle progressive condanne internazionali nei confronti di Israele per il numero crescente di vittime civili a Gaza e ora a Beirut. È lecito però chiedersi, ora, se quella (limitata) ritorsione sarebbe ancora sufficiente ad evitare al regime anche i suoi scossoni interni. L’ascesa del nuovo presidente “riformatore” Massoud Pezeshkian, eletto lo scorso luglio, non può essere letta come frutto del caso, mentre troppo poco si è ancora detto di quel “canale svizzero” e della fitta rete sotterranea di comunicazioni tra gli Usa e l’Iran – che non hanno rapporti diplomatici dal 1979 – per evitare, finora, il peggio.

L’Amministrazione Biden teme ora che l’uccisione di Nasrallah a Beirut possa spingere Teheran ad attaccare e sta intensificando i contatti con la difesa israeliana. Da parte sua il premier israeliano Benyamin Netanyahu, con un’operazione di “soft power” (dopo tante bombe), si è rivolto con un video direttamente ai cittadini iraniani: «Quando l’Iran sarà finalmente libero e quel momento arriverà molto prima di quanto la gente pensi, tutto sarà diverso. I nostri due popoli antichi, il popolo ebraico e il popolo persiano, saranno finalmente in pace».

Israele, fanno notare in molti, non ha ancora sconfitto i suoi nemici, anzi. Hamas, pur decimata, esiste ancora; Hezbollah, pur decapitata e tramortita, possiede ancora migliaia di razzi. E la stessa Teheran dispone di un importante arsenale missilistico e di una forte influenza sulle milizie regionali. Eppure è impossibile non vedere che, negli equilibri mediorientali, qualcosa è cambiato. Difficile, al momento, capire come Teheran possa fare davvero qualcosa per ribaltare di nuovo la partita.

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