Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan - Reuters
Da Paese chiave per gli equilibri mediorientali a stampella del Qatar. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, dopo il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas, non ci ha pensato due volte ed è saltato sul carro dell’organizzazione terroristica, certo che l’atto senza precedenti avrebbe rappresentato un punto di non ritorno nella questione arabo-israeliana. E non aveva sbagliato. Quello con cui il capo di Stato turco non aveva fatto i conti è il fatto che il carro pro Hamas si è rivelato particolarmente affollato, in testa da quelle nazioni che vogliono avere la meglio negli equilibri che caratterizzeranno il Medioriente di domani. Al presidente, comunque, conviene schierarsi con il gruppo islamico, anche solo per motivi di ricaduta interna.
Ad aprile si vota per le elezioni amministrative, che in Turchia si svolgono a colpo secco su tutto il territorio nazionale e quindi sono assimilabili in tutto e per tutto a un test politico. L’appuntamento primaverile, poi, vede la città di Istanbul in bilico, con Erdogan determinato a riconquistarla, dopo che l’aveva clamorosamente persa nel voto del 2019. Anche in questo senso vanno collocate le dichiarazioni del presidente, che ormai si ripetono a cadenza quasi quotidiana e che vengono puntualmente rintuzzate dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. L’ultimo botta e risposta, risale a due giorni da, con Erdogan che ha definito Israele «uno Stato terrorista», criticando anche i Paesi occidentali che lo stanno sostenendo. Il premier di Tel Aviv ha ribattuto dicendo di non prendere lezioni da lui.
Insomma, sembra definitivamente tramontato un tentativo di normalizzazione dei rapporti sul quale Ankara aveva investito oltre cinque anni di tessitura diplomatica e che era stato accelerato con la sottoscrizione degli accordi di Abramo. Il terrore di Erdogan non era certo quello di allontanarsi da Israele, quanto di rimanere fuori dai nuovi equilibri e dalle rotte commerciali che si stavano delineando prima del 7 ottobre in Medioriente e nella regione del Golfo.
Eppure, il posizionamento della Turchia sta portando al suo presidente molti meno vantaggi di quelli che aveva messo in preventivo. Ankara, facendo saltare la normalizzazione con Israele si allontana automaticamente anche dagli Stati Uniti. E anche sulla ricomposizione dei rapporti con Washington, che avrebbe dovuto portare nuovi ingressi di capitali nella Mezzaluna e nuove opportunità commerciali, Erdogan aveva investito tempo e risorse. Uno sforzo completamente vanificato nelle ultime settimane, senza aver ottenuto nulla dalla parte con cui si è schierato. L’Egitto rimane saldamente al suo posto come Paese forte della regione. Ci sono solo altri due “azionisti” che possono infastidirlo. Il primo è l’Arabia Saudita, che però si trova in una posizione delicata, perché a sua volta stava normalizzando i rapporti con Israele. Il secondo è il Qatar, soprattutto per la capacità economica e i rapporti con Hamas. Al leader turco non è rimasto altro che aggregarsi a quest’ultimo, accontentandosi del suolo di protagonista quanto a dichiarazioni riprese dalla stampa internazionale. Molta scena, ma pochi risultati concreti.