Il presidente turco Erdogan - Ansa / Ufficio stampa presidenza repubblica turca
Recita un celebre proverbio arabo: «Non bastano tutti i cammelli del deserto per comprarti un amico». Ma se la moneta di scambio si chiama gas e petrolio off-shore, talvolta anche i peggiori nemici possono trovare conveniente venirsi incontro a braccia aperte. È quanto sta accadendo a Egitto e Turchia, reduci da otto anni di tensione politica a tratti prebellica, e ora lanciati verso un futuro di collaborazione regionale. Il riavvicinamento avviene per tappe serrate.
In marzo l’annuncio della riapertura dei rapporti diplomatici, poi le telefonate fra le massime cariche dello Stato e ora l’organizzazione di una visita ufficiale per la prima settimana di maggio: il ministro degli Esteri turco Mevlüt Cavusoglu si recherà al Cairo con una delegazione «per studiare come migliorare le relazioni», ha spiegato lo stesso ministro. Ankara ha già accettato alcune condizioni poste sul tavolo negoziale dalla presidenza al-Sisi: in primis, quella di non proteggere più l’opposizione egiziana riparata in Turchia dal 2013, dopo la destituzione del presidente eletto Mohammed Morsi, esponente di spicco della Fratellanza musulmana egiziana.
Nella settimana appena terminata, le autorità turche hanno chiuso due noti programmi televisivi, condotti dai giornalisti Mohammed Nasser e Moataz Matar, considerati vicini alla Fratellanza. I due, capita l’antifona, hanno reso noto che prenderanno un mese di ferie e probabilmente si trasferiranno nel Regno Unito oppure in Canada. Quanto alle tre emittenti satellitari dell’opposizione islamista egiziana, tutte diffuse a partire dalla Turchia, esse dovranno trasformarsi in canali di intrattenimento, se non vorranno essere oscurate. In cambio, Ankara otterrà l’uscita dall’isolamento politico – nell’ambito dei Paesi islamici a maggioranza sunnita – cui l’ha condannata la sua strategia aggressiva in Libia, Siria, Iraq, Corno d’Africa. Ma decidendo di abbandonare al loro destino gli Ikhwan al-muslimin (Fratelli musulmani, in arabo) egiziani, il presidente Recep Tayyep Erdogan sta rinnegando se stesso: per quasi un ventennio, il reìs ha rivendicato il ruolo di protettore della confraternita, ovunque essa fosse.
Ankara ha un rapporto consolidato con il braccio politico della confraternita in Tunisia, il partito Ennahda, guidato da Rached Ghannouchi. Con quello palestinese nella Striscia di Gaza: Hamas. E pure con i Fratelli musulmani libici, e con quelli siriani, accolti in Turchia quando il regime degli Assad dava loro la caccia. Tutti hanno ricevuto supporto politico ed economico da Ankara, come anche dall’emirato del Qatar, finora rimasto granitico. La Turchia ha anche offerto all’Egitto di mediare con l’Etiopia nella complessa trattativa per la Grande Diga del Rinascimento etiope e uno sfruttamento delle acque del Nilo concordato fra Egitto, Sudan e Etiopia.
Non è chiaro quanto Il Cairo abbia proposto in cambio: gli osservatori si chiedono se la trattativa sia effettivamente equilibrata. È probabile che l’Egitto stia valutando di riconoscere una – circostanziata – presenza turca in Libia e anche una sorta di protettorato economico di Ankara sul Sudan. Le prossime settimane saranno decisive nella definizione del nuovo scacchiere del Mediterraneo Orientale.