“Svilupperemo canali di irrigazione lungo le rive del lago Malawi, del lago Chilwa e del fiume Shire in modo da poter coltivare i campi in tutte le stagioni”. Anno 2004, Blantyre: Bingu wa Mutharika, appena salito al potere in Malawi, promette al Paese una nuova rivoluzione verde. Ci vorranno ancora cinque anni, poi nel 2009 il governo di Lilongwe introduce la Green Belt Initiative (Gbi): lo scopo è quello di utilizzare le abbondanti risorse d’acqua – che coprono il 21% del territorio nazionale – per incrementare le terre irrigate da 90mila a un milione di ettari. Non si punta solo a raggiungere la sicurezza alimentare, ma anche ad aumentare le entrate derivanti dall’export per sostenere crescita economica e sviluppo.
Quattro anni dopo, però, il progetto è ancora in gran parte rimasto sulla carta. Basta un rapido giro nei dintorni di Mangochi, l’ex Fort Johnston situata tra il lago Malawi e il lago Malombe, per accorgersi che i lavori, nonostante i fiumi di denaro investiti, stentano a decollare. Non solo: il progetto sta creando molti contrasti tra l’amministrazione centrale e le comunità locali, che non vogliono saperne di essere trasferite per far spazio ai nuovi “padroni”.
Di più: c’è chi ha denunciato il tentativo di accaparramento delle terre da parte di grossi investitori nazionali e stranieri, favoriti dalla natura stessa della Green Belt Initiative. La “cintura verde”, infatti, prevede la concessione di appezzamenti agricoli molto vasti per favorire le maggiori economie di scala possibili, il tutto a scapito dei piccoli agricoltori.Attualmente il Malawi è un Paese in cui la distribuzione delle terre è fortemente diseguale. Si stima che il 70% degli agricoltori coltivi meno di 1 ettaro di terra, buona parte del quale dedicato al granoturco, alimento base della dieta locale. Dall’altro lato ci sono invece 30mila aziende agricole che dispongono di appezzamenti tra i 100 e i 500 ettari. “Il paradosso – fa notare un rapporto del Future Agricultures Consortium – è che la Green Belt non tocca la terra in mano all’elite politica e amministrativa ma quella posseduta dai piccoli agricoltori, che in assenza di una cornice legale definitiva viene nominata terra dello Stato”. E ancora: “La mancanza di regole chiare sui trasferimenti di proprietà delle terre mette a rischio la trasparenza della corsa del settore privato all’accaparramento dei campi designati per la Gbi”.
Il governo punta però al progetto con decisione: solo nell'ultimo biennio per la Green Belt sono stati investiti 8 miliardi di kwacha (quasi 17 milioni di euro, non una cifra irrisoria da queste parti) e l’impresa rischia di trasformarsi in un pozzo senza fondo, anche perché la corruzione è diffusa a tutti i livelli.
C’è chi sottolinea che non siano stati raggiunti accordi in grado di dar voce anche alle piccole comunità coinvolte (o travolte?) dall’iniziativa. Da più parti, attivisti della società civile hanno così marchiato la Green Belt Initiative come un progetto disegnato tutto a livello centrale, senza elementi di partecipazione locali, un progetto che invece di migliorare la sicurezza alimentare rischia di peggiorarla. E questo perché le grandi aziende che ne faranno parte risponderanno solo a interessi commerciali, tanto che, ad esempio, non sono stati indicati meccanismi per restringere le esportazioni in caso di una crisi alimentare nel Paese. Le aziende affitteranno la terra per un periodo specifico di tempo determinando in autonomia le proprie priorità produttive, ed è possibile prevedere una svolta decisiva (e rischiosa) verso la monocoltura. Prospettive che, giocoforza, finiranno per avere ripercussioni sull’85% dei malawiani la cui sussistenza dipende proprio dall’agricoltura.