L'abbraccio tra il presidente del vertice, Ahmed al-Jaber, e il segretario esecutivo dell'Unfccc, Simon Stiell - undefined
Mohamed Adow, direttore di Power Shift Africa e veterano dell’attivismo ambientale, lo racconta così: «È come se la luce si fosse accesa all’improvviso e l’elefante fosse comparso nella stanza. Ci sono voluti trentun anni». L’elefante “svelato” sono i combustibili fossili da cui dipende l’86% delle emissioni inquinanti. Eppure finora la diplomazia climatica non aveva mai potuto menzionarli esplicitamente. Si era dovuta limitare a parlare di gas serra da ridurre stando attenda a non citarne la fonte principale. Non è necessario risalire al 1992 quando, al vertice della Terra di Rio de Janeiro, è stata approvata la Convenzione Onu contro il cambiamento climatico (Unfccc) che istituisce le Conferenze delle parti o Cop. Anche solo al vertice di Glasgow del 2021, un riferimento diretto – debole – all’idrocarburo più inquinante, il carbone, aveva comportato una tesissima maratona di trattative conclusa a plenaria in corso. L’anno scorso, a Sharm el-Sheikh, qualunque passo avanti in tale direzione era stato stroncato sul nascere. Si è dovuti arrivare negli Emirati, uno dei primi dieci produttori di oro nero, perché il paradosso apparisse in tutta la sua evidenza. Alla Cop28 di Dubai, presieduta dal sultano e petroliere Ahmed al-Jaber, il velo è caduto.
E la “battaglia dei fossili” è stata catapultata sulla ribalta del summit. Fino a una conclusione inaspettata. Sottolineata da un lungo applauso quando, alle 11.15 di ieri, è stato approvato in una sessione-lampo un documento finale che chiede alle parti di «avviare la transizione verso abbandono dei combustibili fossili nei propri sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando le azioni in questo decennio». Un giro di parole un po’ arzigogolato per dribblare il termine «eliminazione graduale» o “phase out”, in inglese, su cui si era incagliato il negoziato. L’Arabia Saudita, alla guida del fronte dei Paesi produttori, considerava la sua inclusione nel testo una linea rossa invalicabile. Alla fine, Ue, Usa e America Latina – seguiti a malincuore dagli Stati insulari – hanno trovato la parafrasi di compromesso basata su «transizione». Il mandato politico, comunque, è chiaro. Oltretutto viene conferito nel primo “bilancio globale” in cui, come disposto dagli accordi di Parigi, i Paesi firmatari hanno fatto il punto delle politiche climatiche finora adottate e tracciato la strada per il prossimo futuro. Un percorso che conduce alla fine dell’era fossile.
Ieri è stato compiuto il primo passo «nonostante l’inedita pressione esercitata dall’industria degli idrocarburi», sottolinea Ani Dasgupta, presidente del World Resource Institute. «Ora non si torna indietro», aggiunge Maria Laura Vallejo, esperta di Transforma. Il testo fissa un orizzonte temporale stringente per l’avvio della transizione: questa decade. E sigla l’impegno a triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030. Il risultato è, dunque, storico. E si somma al successo dell’entrata in funzione, in apertura, del fondo per compensare i Paesi poveri delle perdite ambientali. In questo senso, «la Cop28 – afferma Jacopo Bencini di Italian climate network – rilancia il processo multilaterale dopo che, due anni di tensioni in internazionali, avevano ridotto al minimo le aspettative. Dimostra che per l’uscita dai fossili è possibile tenere insieme i diversi rivali geopolitici».
Gli Usa e la Russia, in primis. Con Washington in posizione defilata al summit nell’intento di far coesistere la sua aspirazione ad essere un riferimento sul clima con la realtà di produttore di petrolio. Il presidente Joe Biden non ha, però, mancato di esultare per la «pietra miliare». Mentre Mosca, che ha lasciato la prima linea del fronte dei contrari a Riad, ha subito messo le mani avanti, con l’appello a «evitare un’uscita caotica degli idrocarburi». Alla fine, però, hanno firmato entrambi. Questo è il punto di forza dei summit Onu sul clima. Ma anche la debolezza come dimostrano i mal di pancia delle nazioni più povere e di tanti attivisti di fronte alle inevitabili «litanie di scappatoie» presenti nel testo. Come la «riduzione» solo dell’energia prodotta dal «carbone non abbattuto», il riferimento alle tecnologie di rimozione della CO2, considerata non efficace su larga scala dagli scienziati o quello, per quanto indefinito, ai combustibili di transizione. È il limite del multilateralismo. L’alternativa, però, è la guerra.