La scorsa estate ha visto un record di incendi in Amazzonia - Ansa
«E' tempo di stringere un patto con la natura», ha detto il segretario generale dell’Onu, António Guterres all’apertura, mercoledì, della Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità (Cop15) a Montreal. Il summit – nato dal vertice della terra di Rio del 1992 come i “cugini” contro il cambiamento climatico e la desertificazione – è partito già con due anni di ritardo, causa pandemia. Nel frattempo, un milione di specie, soprattutto insetti, rischia di sparire per sempre e il 40 per cento del pianeta è degradato. Non si era mai visto niente del genere in 10 milioni di anni. Da qui l’urgenza di «evitare l’apocalisse», come l’ha chiamata il segretario generale Guterres.
A una settimana dalla fine del summit – a meno di non andare ai tempi supplementari fino ad arrivare al 19 dicembre –, l’illusione di un negoziato spedito e celere fra i 196 Paesi firmatari della Convenzione sembra infranta. Si tratta, piuttosto, di rimettere insieme i cocci per raggiungere un risultato quantomeno accettabile. Insomma, non proprio un “accordo di Parigi sulla biodiversità”, come sperava il fronte ecologista ma quantomeno un’intesa quadro in grado di fermare l’inesorabile dileguarsi di foreste, laghi, animali durante il prossimo decennio. Quello precedente, il cosiddetto “patto di Achimi“, dalla località giapponese dove è stato approvato nel 2010, è scaduto e deve essere sostituito.
Tanto più che nessuno dei suoi venti obiettivi è stato pienamente raggiunto. Ma trovare un nuovo compromesso non sarà facile. Secondo fonti ben informate, la bozza con le ventitré mete da conseguire entro il 2030 contiene innumerevoli richieste di correzione. Si parla di 1.400 frasi da riformulare, segno della mancanza di intesa. Molti sono i punti dolenti. Due, però, sono le battaglie principali in corso nella sede di place Québec.
La prima, quella campale, riguarda la cosiddetta proposta “30-30”: la trasformazione in aerea protetta di un terzo del pianeta – il 30 per cento della superficie terrestre e un’analoga quota di distesa marina – entro il 2030. Si tratterebbe di un forte balzo in avanti: attualmente la porzione di terra sotto tutela sfiora la metà, due punti in meno di quanto contenuto nel patto di Achini. Per gli oceani si arriva appena all’8 per cento.
In teoria, almeno 110 nazioni sostengono il “30-30”, inclusi gli Stati Uniti che non hanno nemmeno sottoscritto la Convenzione del 1992. «Prendiamo in seria considerazione l’idea», ha detto l’inviata speciale di Washington, Monica Medina. Resta, tuttavia, da convincere quasi la metà delle nazioni-parte. Quando poi si passa alla definizione degli aspetti pratici, anche il fronte dei favorevoli si frastaglia in una serie di posizioni spesso inconciliabili. Il nodo principale è il ruolo dei popoli indigeni nelle future aree protette. Questi ultimi rappresentano appena il 5 per cento della popolazione mondiale eppure custodiscono l’80 per cento della biodiversità esistente. Con ottimi risultati, ha certificato l’Onu, quando i territori sono legalmente affidati alle comunità autoctone. Il fronte conservazionista “duro”, però, punta a un sistema “fortezza”, sperimentato, non senza polemiche, principalmente in Africa.
Secondo il Rights and resources initiative, oltre 250mila persone sono state espulse in quindici Paesi per far posto ai parchi naturali, tra il 1990 e il 2014. In ottobre, i giudici della Tanzania hanno respinto il ricorso dei nativi Masaai contro l’ordine di espulsione dalla terra ancestrale vicino alla riserva del Serengeti. Da qui la forte presa di posizione di Survival international e Amnesty. In un comunicato congiunto, hanno chiesto una seria revisione della proposta. «Senza – si legge – la vita di molti popoli indigeni sarà distrutta». Oltretutto la sola espansione delle aree protette non è sufficiente a tutelare la biodiversità.
La principale minaccia è l’estrattivismo, il sistema di sfruttamento selvaggio delle risorse naturali nel Sud del mondo per l’esportazione sul mercato internazionale. Dagli anni Settanta, la pressione delle grandi aziende minerarie, agricole e dei biocombustibili è triplicata, a spese delle foreste e dei suoi abitanti. Senza una riforma dei sistema economico e del commercio internazionale, la difesa della natura rischia di ridursi a slogan.
L’altro braccio di ferro della Cop15 riguarda la finanza e vedi ancora contrapposte le due metà del globo. La tutela della natura richiede fondi ingenti. Almeno 384 miliardi l’anno a partire dal 2025 secondo il Programma Onu per l’ambiente. La finanza privata, da sola, si ferma a metà della cifra. Come ha dimostrato la recente Cop27 sul clima, però, far mobilitare i soldi pubblici agli Stati è arduo. Una possibile soluzione prevede la riduzione di un terzo dei sussidi – significativi, si parla di 1,8 trilioni di dollari – alle imprese che, con loro attività, contribuiscono alla perdita di biodiversità. E il parallelo investimento in attività di protezione. I Paesi poveri chiedono, inoltre, un meccanismo di aiuti da cento miliardi di dollari l’anno dalle nazioni più industrializzate per far fronte all’impatto della perdita degli ecosistemi. Il precedente dell’analogo fondo per l’adattamento al riscaldamento globale, deciso a Parigi e mai arrivato, però, non lascia ben sperare.