Una delle manifestazioni di protesta delle donne che sono andate in scena a Mosca negli ultimi mesi - ImagoEconomica
Sul canale Telegram dedicato ad Alekseij Moskalev, papà di Masha, la ragazzina che per un disegno contro la guerra è stata sottratta al padre e lui è stato arrestato, gli iscritti sono 2.000. In tempi di delazioni sono duemila coraggiosi che osano sfidare le autorità che li spiano a ogni respiro. L’account oltre a aggiornare sull'andamento del caso, le condizioni di Moskalev, raccoglie fondi per sostenere le spese legali e permettergli di telefonare alla figlia. Grazie a questa rete si recapitano lettere e generi di conforto. Gli account dedicati agli arrestati per avere detto no alla guerra sono tantissimi. È il potere del Web che permette la comunicazione da qualunque angolo della Russia e con il resto del mondo. Soprattutto è una connessione tra chi condivide lo stesso sentire, lo stesso malessere, lo stesso dolore. Una catena che si prende cura di chi è caduto nell’altra rete, quella della repressione e che consente ai prigionieri politici di resistere. Russi che aiutano russi.
Nei due anni e mezzo di guerra questa dimensione è cresciuta, si è strutturata. Ha imparato ad agire concretamente. Senza questa rete molti e soprattutto i più fragili non ce la potrebbero fare. Giacerebbero nelle celle buie in totale abbandono. Isolamento all’interno del paese e indifferenza dall’esterno. Un'altra Russia che c'è e dovrebbe essere sostenuta e trovare sensibilità pure da parte della società civile europea. Il regime li opprime, l'Occidente di fatto fa poco o nulla. Restano così in un cupo cono d’ombra. La mamma di Alexandra Skochilenko ha condiviso un post riportando le parole di un’altra donna, Maria Ponomarenko, la giornalista “rea” di avere mostrato un cartello durante il telegiornale «non credete a quello che vi dicono. C’è la guerra». Maria ringrazia Nadezhda per averle scritto e la prega di ringraziare tutti quelli che le scrivono perché ogni lettera è un sollievo, un aiuto per riuscire a sopportare la mancanza degli affetti a restare fedeli ai principi di pace e libertà. Partecipare a questa tela della solidarietà è possibile anche da qui attraverso molti account che sui social offrono notizie per entrare in contatto con i gruppi che scrivono ai detenuti e traducono i testi in russo, condizione indispensabile per passare la censura.
Tutto questo fa i conti con la fase in cui si inasprisce la repressione. Le mogli, fidanzate e figlie dei soldati che da mesi ogni sabato protestavano silenziosamente portando i fiori ai monumenti del milite ignoto per chiedere il ritorno degli uomini dal fronte, sono state iscritte nella lista degli agenti stranieri. Mai era accaduto che si colpissero le madri, le mogli dei soldati. Né ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e nemmeno durante le guerre in Cecenia. C’era un’attenzione particolare per queste donne intendendone la vulnerabilità e il rischio di commettere un passo impopolare. In questi giorni questo tabù è stato frantumato rendendo evidente il timore del regime verso chi ha la capacità di incrinare la sua immagine. Ma un’altra schiera di donne si è subito ritrovata davanti al ministero della Difesa. In ginocchio coi figli nelle carrozzine. Non è la rivoluzione. Di certo è una sfida. Alle guardie che cercavano di mandarle via dicendo «Ma signore c’è la guerra», hanno risposto «Chi lo sa meglio di noi? Vogliamo giustizia. Rivogliamo i nostri uomini».