L’uomo è stato trovato morto nel suo appartamento in Colorado, negli Usa, apparentemente per overdose. Era caduto nella trappola della dipendenza, cercando di superare il trauma subito in quella scuola Austin Eubanks ritratto dopo la strage nel 1999 / Ap
«Ho imparato alla svelta che se prendevo narcotici, non sentivo più niente, il dolore emotivo spariva». Dopo 20 anni, la strage di Columbine ha mietuto la sua 14esima vittima. Austin Eubanks, che il 20 aprile 1999 vide morire il suo migliore amico nascosto sotto un banco crivellato dai colpi sparati da due compagni di scuola, è stato trovato morto ieri nel suo appartamento in Colorado, apparentemente di overdose.
Quel giorno, in un’aula di musica alla periferia di Denver, lo stesso Austin fu raggiunto da due proiettili: uno a una mano e uno a un ginocchio, e qualche ora più tardi si trovò all’ospedale, attaccato a una flebo che eliminava il male. Ma non fu per fermare il dolore fisico che, una volta tornato a casa, continuò a prendere le pastiglie di oppiacei che un medico gli aveva prescritto. «La sofferenza fisica scomparve nel giro di pochi giorni, ma la sofferenza emotiva rimase sempre allo stes- so livello debilitante del primo giorno: un’agonia ben al di là della mia comprensione ». Le pastiglie cancellavano anche quella. «Avevo 17 anni e sono diventato dipendente senza rendermene conto – ha raccontato – quando la prescrizione è finita, ho cominciato a cercare altro. Alcool, marijuana, droghe da strada».
Solo a 29 anni, dopo 14 mesi di riabilitazione, Austin ha ricominciato a vivere, e ha dedicato ogni attimo della sua vita a due missioni: prevenire la violenza di massa provocata dalla mancanza di controlli nella vendita delle armi e la tossicodipendenza causata da traumi psicologici sottovalutati, come il suo. Ma era una battaglia che spesso lo scoraggiava. «Invece di lavorare insieme per sradicare la questione per le generazioni future, negli Stati Uniti aumentiamo le esercitazioni nelle scuole per insegnare ai bambini come nascondersi meglio. In questo modo, abbiamo desensibilizzato e traumatizzato intere generazioni». Austin girava gli Stati Uniti snocciolando i numeri di una tragedia che voleva a tutti i costi fermare. Come i 393 milioni di pistole e fucili presenti nelle case americane: ben più di una per persona, compresi i neonati. Come i numeri di ragazzi uccisi o gravemente feriti nelle sparatorie avvenute nelle scuole americane. E come le vittime più difficili da contare: i milioni di sopravvissuti che, come lui, sopportano una pena emotiva enorme solo grazie a vari tipi di narcotici, che negli Usa vengono prescritti circa 260 milioni di volte ogni anno.
Nel 1999 la strage di Columbine fu la carneficina da armi da fuoco che costò più vite in tempo civile nella storia americana, e rappresentò un vero e proprio trauma nazionale. Per mesi provocò un dibattito su che cosa si potesse cambiare perché un fatto del genere non si ripetesse più. Ma in vent’anni nessuna misura significativa di controllo delle armi è stata approvata dal Congresso, e da allora la frequenza e la letalità delle sparatorie negli Stati Uniti è solo aumentata. Il mese scorso, nel ventesimo anniversario della strage nella sua vecchia scuola, Austin ha espresso frustrazione, dicendo che la nostra società «ci programma a narcotizzare la sofferenza ». Pochi giorni dopo, Austin, «ha perso la battaglia con la stessa malattia che ha combattuto così duramente ».