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Ormai è certo: il 23 maggio, il Regno Unito voterà per il rinnovo del Parlamento Europeo. Prima di allora, non ci sarà alcuna Brexit. La conferma è arrivata, ieri, per mezzo del vicepremier David Lidington con una dichiarazione, appena poco attutita dai festeggiamenti per la nascita del Royal Baby, che ha certificato l’impossibilità di arrivare, a breve, a un accordo tra governo e opposizione sulle modalità di separazione di Londra dal blocco continentale. In fumo, ormai in via definitiva, la speranza del governo di risparmiare ai cittadini un voto, come quello europeo, che contraddice lo spirito della Brexit e che rimanda nel mondo, non solo a Bruxelles, l’immagine di Paese frustrato, prigioniero di un progetto al momento irrealizzabile.
La premier Theresa May aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per «consegnare» la Brexit al suo elettorato entro il 23 maggio, ma non ce l’ha fatta. «Sono molto dispiaciuta», ha ammesso. Il suo vice, Lidington, ha provato ad ammorbidire i termini del fallimento: l’intesa con il Labour, unica via d’uscita all’impasse che tiene sotto scacco il Parlamento da mesi, «resta ancora possibile». Ma, ha aggiunto, «dato il poco tempo rimasto» prima del 23 maggio, «è ormai malauguratamente impossibile portare a compimento la procedura legale dell’uscita dall’Ue prima delle elezioni europee». I britannici, quindi, andranno a votare per inviare i propri rappresentanti a Bruxelles. Il vicepremier si è sforzato di sottolineare, tuttavia, che la battaglia non è persa. L’obiettivo del governo, ha evidenziato, è rendere il rinvio della Brexit «il più breve possibile».
A suo dire, il Regno Unito potrebbe non aver bisogno di utilizzare l’intera proroga concessa dal Consiglio Europeo, dal 29 marzo al 31 ottobre, perché potrebbe riuscire ad approvare un piano condiviso per la Brexit entro «il 2 luglio», ovvero prima che il neoeletto Europarlamento si insedi. Questa possibilità, nei fatti, è davvero remota.
Si diceva che la quadratura del cerchio della mediazione tra May e Corbyn sarebbe arrivata a breve visto che la premier May aveva addirittura accettato il piano corbyniano di «soft Brexit», ovvero partecipazione del Regno Unito alll’Unione doganale, seppure fino alle elezioni politiche del 2022. L’ottimismo era alimentato dal fatto che entrambe le parti, pesantemente bastonate dall’elettorato alle recenti votazioni amministrative, avvertivano l’urgenza di recuperare la fiducia dei cittadini stanchi e delusi dalla Brexit.
Tutto lascia pensare che quello tra governo e opposizione sia stato un inutile «dialogo tra sordi». Secondo indiscrezioni, la premier avrebbe perfino nel frattempo trattato segretamente con gli europeisti del Labour per chiedere un secondo referendum, finora sempre escluso. Il laburista, dal canto suo, sembra abbia continuato a bluffare, non avendo i numeri per far passare alcun accordo perché i due terzi dei suoi deputati avrebbe rifiutato qualsiasi intesa che non prevedesse una seconda consultazione referendaria. Lo stallo, insomma, sembra al momento insuperabile.
Il presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, ci scherza su: «Rispetto al Parlamento britannico – ha detto – la Sfinge egiziana è un libro aperto». Per poi aggiungere: «Fu un errore aver ascoltato l’allora premier britannico David Cameron quando mi chiese di non interferire nella campagna referendaria sulla Brexit nel Regno Unito. Noi saremmo stati gli unici in grado di smontare le bugie che sono state raccontate».