La premier Theresa May torna in Aula martedì per il voto decisivo su Brexit (Ansa)
Ormai è questione di giorni. Tre, per l’esattezza. Come stabilito dalla mozione governativa che il Parlamento ha approvato venerdì a larga maggioranza, il futuro della Brexit verrà deciso martedì 19 marzo (o al massimo mercoledì 20) quando l’Aula sarà chiamata a votare ancora una volta, la terza dopo due sonore bocciature, l’accordo raggiunto dal governo con l’Ue e annesso rinvio «tecnico» della separazione al 30 giugno. L’ampio margine con cui Theresa May, venerdì, è riuscita a far passare la sua mozione lascia pensare che sia riuscita a ricompattare una maggioranza che in Aula non si vedeva da settimane. I suoi sforzi saranno adesso concentrati a farla durare, almeno fino al voto. Le consultazioni con i riottosi falchi “brexiteer” del partito conservatore e con gli alleati nordirlandesi del Dup proseguiranno per tutto il weekend.
La dialettica del confronto resta quella della minaccia: se «il piano May» non viene approva- to bisognerà inventare dal nulla una nuova strategia e, a quel punto, chiedere all’Ue un lungo rinvio che potrebbe far saltare la stessa Brexit. Agli unionisti del Dup, che continuano a chiedere ulteriori garanzie legali sul controverso “backstop”, la clausola di garanzia del confine tra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord, sembra che l’esecutivo abbia persino promesso in cambio del supporto maggiori finanziamenti per l’Ulster. Alla trattativa con il Dup, gruppo di appena 10 parlamentari da cui dipende la tenuta della maggioranza, partecipa anche il procuratore generale Geoffrey Cox, che con il suo «scettico» parere legale all’integrazione dell’accodo firmata dalla May con l’Ue alla vigilia del secondo voto sul piano, ha contribuito ad affossarlo. Parallelo alle trattative politiche procede il lavoro sulle formalità che dovranno essere compiute nel caso in cui l’accordo, e annesso rinvio al 30 giugno, dovessero passare.
Da mettere a punto non c’è solo la richiesta del posticipo che, all’unanimità, dovrà essere approvata dai leader dei 27 Paesi dell’Ue. Gli alti funzionari lavorano già alla lunga lista di leggi che il Parlamento dovrà ratificare per rendere effettiva la separazione dal continente, come quelle relative ai diritti dei cittadini europei in Gran Bretagna e all’accesso degli immigrati al mercato del lavoro. Questioni spinosissime su cui si annunciano già altre battaglie. L’unica cosa che sembra non preoccupare i tecnici del governo sono le elezioni europee di fine maggio. La data indicata dalla premier come termine ultimo del posticipo, 30 giugno, sarebbe volutamente stata scelta, spiega il Financial Times, per anticipare di qualche giorno l’insediamento del nuovo Parlamento, cosa che libererebbe Londra dall’obbligo di mandare suoi rappresentanti a Bruxelles. Seppure il voto di venerdì abbia rafforzato la posizione della premier, l’esito della seduta della prossima settimana non è scontato.
Cosa succederebbe se l’accordo non dovesse passare? La premier, a quel punto, dovrebbe chiedere una lunga estensione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona e trovare validi elementi a supportarla. Qualsiasi decisione – proposta di un nuovo modello di Brexit, convocazione di elezioni anticipate o secondo referendum – dovrebbe passare attraverso il Parlamento ma, conti alla mano, non c’è tempo. Londra rischia di arrivare alla mezzanotte del 29 marzo con un pugno di mosche in mano, rendendo così inevitabile una separazione «no deal» accidentale.