Yemeniti sfollati in un campo alle porte della capitale Sanaa - Ansa
Per arrivarci si supera la rotonda che qui, a Sanaa, chiamano «del mausoleo cinese»: è il tributo che venne innalzato negli anni Settanta all’ingegnere di Pechino che costruì la prima strada a scorrimento veloce intorno alla capitale dello Yemen. Per rendere il tributo ancora più solenne, negli ultimi anni, è stato aggiunto un cartellone che celebra le buone relazioni tra i due Paesi. Ma dopo la rotonda è no-man’s land.
O meglio, è una immensa discarica a cielo aperto, dove da anni i camion depositano tutto quel che si trova in città: dalla plastica alle carogne di animali. Nel mezzo – veri e propri scarti sociali – vivono i neri yemeniti, detti anche muhamasheen, letteralmente “coloro che vivono ai margini”. Figli e discendenti dei migranti somali ed etiopi di etnia oromo, a questi disgraziati non è dato avere una vita normale, fosse anche vendendo chincaglieria ai semafori: il meglio che la società yemenita può offrire loro è un onesto lavoro di spazzino, con una tenda bene allogata nel centro della discarica. Bilal ha dieci anni e raccoglie bottiglie plastica da quando ne aveva sette: padre non pervenuto, madre morta in un bombardamento, si è spostato dal quartiere-ghetto dei neri yemeniti di Sanaa con i tre fratelli e la sorella.
«Guadagno 1.200 Yemeni rial al giorno». È l’equivalente di cinque dollari. Con quelli, tutti si sfamano come possono: «Spesso trovo ottimi resti di cibo nella spazzatura: uno dei miei fratelli fa la posta fuori dai ristoranti. Io raccolgo plastica perché è un lavoro». Per fare questo lavoro, Bilal ha rinunciato alla scuola. « Ma spero di garantirla almeno a mia sorella che ha quattro anni». La sua vita nella discarica è quella di un bambino diventato uomo troppo presto, ma c’è da dire che, se questo è il peggiore scenario possibile della povertà, nella capitale dello Yemen governato dalle milizie Houthi, non va meglio nemmeno per chi sta un gradino più sopra di questa disgraziata scala sociale. A dieci minuti di auto dalla discarica, si intravede una accozzaglia di tende dell’Unhcr. Il vento che si alza prima di ogni potenziale acquazzone sembra volersele portare via: in effetti, nessuno le ha fissate in modo appropriato.
Naim Qassem ci viene incontro all’ingresso del campo, vestito con la gonna tribale, la mawaz, e circondato da una decina di bambini urlanti che trascinano copertoni per auto pick-up o camion. Lui si scusa per il baccano, lamentando l’eccitazione dei bambini: «Non viene mai nessuno a trovarci», aggiunge, facendo intendere che anche gli adulti non sono da meno. Questa varia umanità vive nel mezzo della fanghiglia intervallata dai deboli ripari delle tende da nove anni, ossia dai primi bombardamenti sauditi sulla città di Hodeida. I duecento che vivono qui si sono lasciati tutto alle spalle, in una notte: chi poteva è arrivato in auto, chi non poteva strappando passaggi di fortuna su carri strabordanti di fascine.
C’è anche chi arriva da più lontano: Bilal Abdallah viene da Saada, la città-roccaforte degli Houthi. Lì lavorava all’ufficio delle dogane sul confine. «Siamo qui dal 2015, dopo un passaggio di mezzo in un’altra cittadina, al Bukr». Si è portato dietro la famiglia ma per lui la vita è precipitata da impiegato a senzatetto, insieme a moglie e figli. Non è questa, comunque, la sorte peggiore, tra gli abitanti del campo. Zahra Ahmad Zaid è anche lei di Saada ma, dopo tutti gli sforzi, un marito morto e la famiglia della figlia appresso, sta facendo i conti con un tumore allo stomaco: insiste per mostrarci l’addome enfiato, come prova della bontà delle sue affermazioni. Le crediamo senza bisogno di visitarla quando ci mostra tutte le carte. Ha subìto tre interventi nell’ospedale egiziano al-Jumuri: 19mila Yemeni rial in totale, distribuiti in tre cifre da 6mila, 4mila e 3mila già pagate.
Per il resto del debito non ha più soldi e non può accedere alla chemioterapia né agli antidolorifici che forse le allevierebbero una vita vissuta ormai in posizione distesa o a carponi. Zahra ha solo cura di benedire Dio tra un lamento e l’altro: le bestemmie le riserverebbe «alla guerra e a chi ci ha messo in questa situazione », dice. Ma ancora non abbiamo disceso l’abisso. Il capo-campo ci segnala l’area che definisce degli «appestati»: è la zona in cui vive la famiglia del vecchio Wissam, che non sarà vecchio ma il suo viso ci parla di un dolore indefinibile. Entriamo in un cerchio composto da quattro tende: da una si affaccia una donna. « Mia moglie Bushra: a volte è assente, ha qualche problema mentale».
Scopriamo che Bushra, assai più giovane di Wissam, ha fatto con lui cinque figli. Ma ne aveva altri cinque da un matrimonio precedente. «Sono nati tutti con qualche rotella fuori posto: è sicura di volerli vedere?», ci chiede preoccupato l’uomo, facendo notare che potrebbero reagire in modo aggressivo. Ne vediamo due, i due che non si muovono mai e di cui Wissam non ci dice come si chiamino, semmai qualcuno abbia dato loro un nome o si ricordi che ne detengono uno. In due tende diverse, su un letto – se così si può definire – ciascuno, giacciono due avanzi umani immersi nei loro escrementi. Il tanfo è insopportabile: il senso di impotenza di fronte a tanta privata dignità, lo è altrettanto. Wissam si scusa con noi per la visione e l’odore raccapriccianti ma «non ci possiamo fare niente».
Il suo atteggiamento è perfettamente coerente con la poca considerazione che la malattia mentale ha in questo Paese dove si crede ancora che solo gli spiriti, i jinni, siano i responsabili di ogni forma di disagio psicologico o neurologico, dalla depressione all’epilessia. Non c’è da stupirsi che i pazienti vengano tuttora isolati e legati nelle case private, in un panorama che si allarga anche alle cosiddette “cliniche”, dove esiste l’ora d’aria come in prigione e i malati vengono trasferiti in cortile in catene.
La guerra ha solo peggiorato problemi già presenti nel Paese dove esiste un solo ospedale psichiatrico, ad Aden, che deve fronteggiare più di 400 richieste di intervento al giorno e ha letti solo per 125 uomini e 25 donne: in quell’ospedale, nel 2022, vedemmo ancora le camicie di forza e la cella di isolamento.
Povertà e disagio mentale sono il fondo dell’abisso in cui il Paese è precipitato da dieci anni: ma c’è anche la volontà politica, insieme alla mancanza di fondi, nella scelta di far proliferare le cliniche private a discapito della sanità pubblica. Il portavoce del ministro della Salute, Anees al-Ashbahi, ci dice che «gli attacchi bomba diretti su alcuni ospedali, cliniche e servizi, hanno portato alla perdita del 55% delle strutture, oggi non più funzionanti » e che «il principale problema è il taglio dei salari dal governo centrale di Aden, che ha causato al fuga all’estero di 7mila persone nel settore sanitario».
Aggiunge che il governo degli Houthi sta cercando di coprire questo buco, reclutando personale anche all’università. Nell’ospedale pubblico al-Sabaaen di Sanaa, una volta fiore all’occhiello della sanità yemenita per le donne e i bambini, la dottoressa Hana al-Dubai, vice-manager della struttura, inscena una protesta davanti al funzionario governativo, accusandolo «di avere a cuore solo le sue apparizioni televisive: non i pazienti, non i medici che fanno turni massacranti senza garanzie».
L’increscioso episodio si conclude con una serie di telefonate del burocrate con il ministro stesso e la promessa dell’applicazione di una «punizione esemplare» per la donna. Intorno ai due, durante il litigio, pazienti e colleghi cercano di calmare le acque, sbracciandosi nella corsia dipinta di rosa dell’ospedale, tutti bene attenti a non dire una parola di troppo. R